Rimini - Abbiamo parlato spesso delle derive di alcune realtà laicali, e non abbiamo mancato di riflettere anche sui punti critici di quelle realtà che, pur possedendo il carisma del fondatore – davvero autentico e prezioso per la Chiesa – finiscono per generare storture.
In molti articoli abbiamo spiegato la differenza sostanziale tra una “comunità credente” e una “setta”. Pur se qualcuno fatica a distinguere tra “amore per la verità” e “attacchi sterili”, il nostro impegno è sempre stato quello di offrire i primi, non i secondi. Nella Chiesa, infatti, a far crescere e a generare progresso non sono mai stati i compiacenti, ma coloro che hanno saputo risultare scomodi al pensiero dominante del loro tempo. E di questi abbiamo esempi luminosi nei santi.
Sul fronte della comunicazione, poi, ci siamo più volte soffermati sul fatto che la Chiesa soffre di un problema serio e strutturale. Non si tratta soltanto dei grossolani errori del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede – errori che abbiamo evidenziato nella speranza di un miglioramento, affinché la “voce del Papa” possa giungere al mondo in modo autorevole e credibile – ma del sintomo di un modus pensandi e agendi che, purtroppo, si è ormai fatto sistema. Perché, al di là di quello che può immaginare il lettore che proietta sull’articolista i propri fantasmi e si illude di interpretarne le intenzioni, restano i fatti: e i fatti, Silere non possum li mette sempre nero su bianco e li prova.
Incapaci di comunicare, incapaci di evangelizzare
Ebbene, anche nella comunicazione ecclesiale si riscontra una vera e propria deriva settaria. Funziona così: “ti cito se sei mio amico”, “ti offro spazio se siamo in buoni rapporti”. Frasi che circolano con naturalezza. E chi non è intriso del familismo amorale italiano rabbrividisce. In Italia, infatti, tutto si regge su queste logiche: sei amico del Questore? Allora vieni accolto, ascoltato, persino favorito nei provvedimenti che vengono adottati con celerità. Non lo sei? Peggio ancora, se il Questore è amico di un tuo nemico, puoi anche prepararti a lunghi silenzi. Del resto, l’omissione d’atti d’ufficio è uno dei tanti reati che il governo attuale vorrebbe eliminare.
Sei amico del Pubblico Ministero? Bene, la tua richiesta sarà presa sul serio e, anche se hai torto, qualcuno si adopererà per sostenere la tua causa. Ma se in Procura non conosci nessuno, pazienza: ci sono tante denunce, bisogna aspettare. Aspetta e spera. Depositi istanze? “Ci sono troppi caffè alla macchinetta che devono essere ingeriti”. Il “rappresentante dello Stato” lascerà correre fino alla prescrizione, garantendo di fatto la non punibilità dei reati.
La logica è sempre la stessa: o sei amico del potente – e dunque protetto – oppure non sei nessuno. E sembra che questa logica l’abbia ben compresa chi si presta ad offrire palcoscenici per i monologhi dei potenti.
Giornalismo e potere
Se poi fai il giornalista, la commistione diventa ancora più malsana, con dinamiche già condannate da diversi organismi internazionali: il do ut des tra cronisti e procure, tra cronisti e questure. È sufficiente pensare a quanti abusi della polizia di Stato finiscono puntualmente sotto silenzio sui giornali. E intanto, mentre Giorgia Meloni sfila al Meeting di Rimini lanciando slogan e facendo addirittura riferimento ai giornalisti uccisi da Israele con le nostre armi, nessuno ha avuto modo di chiederle come mai, in Italia, lei autorizzi intercettazioni ai danni dei cronisti, permetta a polizia e procure di perquisire, sequestrare e compiere atti illegali contro giornalisti che raccontano fatti sgraditi al potere.
Mentre qualcuno applaude ad un primo ministro che parla (e sottolineiamo il “parla”) certamente di alcune riforme che sposano i valori cristiani, allo stesso tempo ci si dimentica che nei rapporti fra Stato e Chiesa le cose scricchiolano e il Premier non si è contraddistinto per fare i nostri interessi. Ma è noto che alcuni cattolici soffrano di memoria a breve termine, soprattutto quando rischiano di far saltare le loro poltrone.
Le passerelle sono il passatempo prediletto di chi applaude sempre al potere – di qualsiasi colore politico – ma resta l’evidenza: questa allergia del Premier ai microfoni liberi è innegabile. Se da un lato ci sono giornalai che fanno domande senza senso, Meloni non risponde neppure a chi le domande le fa e con cognizione di causa. Del resto, se il capo del governo italiano vuole solo fare monologhi, non c’è bisogno di meeting: basta Palazzo Chigi e un cavalletto.
E qui torniamo al punto: il potere.
Mauro Giuseppe Lepori e la mondanità
Anche dentro la Chiesa troviamo ambienti infestati da chi del carisma del fondatore non ha capito nulla e lascia che sia la smania di potere a guidare ogni azione. Ci riferiamo a quei personaggi che hanno agito contro i propri ordini religiosi, chiudendo case, giudicando comunità, distruggendo persone facendo vere e proprie campagne denigratorie e diffamatorie. La setta, del resto, funziona così: o sei con noi, o sei contro di noi. Se esci ti distruggo.
E al Meeting di Rimini, come avviene ormai da anni, era presente anche quest’anno l’Abate Mauro Giuseppe Lepori, Generale dei Cistercensi. Un nome ormai associato a numerose campagne contro confratelli e consorelle. Le ultime? Quelle documentate da Silere non possum ai danni delle monache di San Giacomo di Veglia e dei monaci di Heiligenkreuz, dove le sue pressioni hanno perfino provocato un infarto all’abate Maximilian.
Fra gli stand del Meeting, Lepori non ha perso occasione: strette di mano (poche perché le relazioni con gli altri sono un punto sul quale non riesce a lavorare molto), passerelle, interviste che di monastico non hanno nulla. Tutti però ricordano quando, ai microfoni di Mediaset, lo stesso Lepori accusava la badessa di San Giacomo di Veglia di essere “troppo mondana”. Il motivo? Aveva promosso sui giornali e in televisione il vino prodotto dal monastero. Quel vino che garantiva la sopravvivenza delle monache. Non mondanità, ma semplice necessità, adattamento ai tempi in stile del tutto sobrio. Nonostante ciò, a differenza di Lepori, che si concede viaggi spesati dalla Casa Generalizia per raggiungere Rimini, le monache per vivere devono lavorare. E quel lavoro era perfettamente coerente con la tradizione monastica.
Ben più mondano, e indicativo di una certa sete di potere, è recarsi al Meeting di Rimini per parlare di tagliatelle al ragù e panorami dai monasteri.
© Meeting Rimini
Il giornalismo asservito al potere
Se Giorgia Meloni rilascia interviste solo alla televisione di stato con domande già concordate, nella Chiesa non funziona poi così diversamente. È forse per questo che qualcuno applaude.
Le accuse diffamatorie di Mauro Lepori furono lanciate ai microfoni di Mediaset, in un’intervista confezionata ad arte da Ilaria Dalle Palle: pseudo-giornalista da salotto televisivo, conosciuta più per gli abiti scollati e le pose da copertina che per la serietà professionale, la quale aveva preparato l’incontro con domande studiate a tavolino per non disturbare l’interlocutore. Una che non cerca la verità, ma il potente da blandire.
Quando esplose il caso delle monache di San Giacomo di Veglia, la signora Dalle Palle contattò Silere non possum chiedendo informazioni – e, guarda caso, il numero di Lepori. Numero che, pur avendolo, non le abbiamo mai fornito. Tanto ci ha pensato il portavoce della diocesi di Vittorio Veneto, don Alessio Magoga, che si è lasciato sfuggire: “Parlate con la Dalle Palle, è brava ed equilibrata”. Nel linguaggio ecclesiale “equilibrata” significa una sola cosa: “ripete quello che fa comodo a me”, fa da cassa da risonanza a ciò che voglio che venga comunicato.

Eppure, il giornalista non è, non deve essere, un portavoce. Il suo compito è ascoltare tutte le parti, raccogliere prove, documenti, verificare, e infine raccontare. Questo molti non lo capiscono, tantomeno nella Chiesa. È lo stesso errore commesso a Bose, quando rifiutarono di rapportarsi serenamente con chi aveva il coraggio di fare domande. Risultato? Silere non possum pubblicò i documenti segreti raccontando la verità e mettendo nero su bianco ciò che realmente stava accadendo. Perché la verità, piaccia o non piaccia, non si ferma.
La Dalle Palle, invece, è tutto tranne che giornalista. Possiamo classificarla come narratrice da domenica pomeriggio su Canale 5. E basta. Il giornalismo è altra cosa. E tutto ciò che scriviamo, sia chiaro, è documentato: audio, video, chat. Richieste di chiarimenti, richieste di numeri, lamentele perché le monache non rilasciano interviste, ecc…Se qualcuno ha da obiettare, troverà pronta risposta.
Cosa ha fatto dunque la “giornalaia” Mediaset? Ha raccolto la versione di Lepori – inconsistente e priva di documenti – e l’ha servita come fosse oro colato, piena di calunnie e illazioni contro la badessa. Perché è sempre così: le donne difendono i diritti delle donne… fino a quando non ne vedono una al potere. Se poi quella donna è una religiosa, allora la frustrazione diventa rancore. Tanto più che la badessa di San Giacomo di Veglia aveva commesso l’imperdonabile: rifiutare un’intervista alla “queen” di Canale 5. Il risultato? Un’intervista imbarazzante a Lepori, girata nel chiostro della Casa Generalizia, studiata per non infastidire l’abate, seguita da articoli pubblicati su giornali-spazzatura pieni di “si dice che…”, “sembra che…”. Un concentrato di chiacchiericcio, mentre altri – accusati di “commenti confusionari” – pubblicavano invece documenti ufficiali con carte intestate e firme.
E qui la domanda nasce inevitabile: chi fa davvero giornalismo? Chi si limita a diffondere illazioni o chi porta alla luce documenti firmati e atti ufficiali? Se un giornalista non ha i mezzi per indagare, e si rivela inaffidabile, intento a postare suoi social e cospirazionista, sempre a caccia di uno “scoop” per saziare un ego che lo divora e che, proprio per questo, lo rende inaffidabile agli occhi di tutti, allora farebbe meglio a cambiare mestiere. Quante volte siamo stati contattati da persone che volevano affidarci “scoop” che, una volta verificati, si sono rivelati nient’altro che rancori personali o fake news? Il caso Castiglia è stato l’unico che siamo stati constretti a raccontare, ma gli esempi sono innumerevoli.
Il giornalista non può ridursi a pubblicare ciò che gli passa chi chiacchiera con lui: quello è il lavoro del portavoce, non del cronista. Il giornalista, invece, deve indagare, scavare, verificare. È un lavoro scomodo, che porta fastidi, ma è inevitabile. Ed è qui che molti non comprendono un punto elementare: parlare con chi fa informazione seria è sempre meglio che tacere. Perché quando il giornalista serio ha davanti a sé tutte le carte e tutte le versioni, allora sì, può raccontare la vicenda in maniera completa, esaustiva e fondata.
E poi ci sono certe signore della televisione che non fanno informazione, ma riversano sulle religiose i propri fallimenti. E, come sempre accade con penne intrise di rancore, si abbandonano a invettive contro le monache “colpevoli” di aver aperto una pagina Instagram. L’accusa arriva da certe “signore” che non esitano a riempire i social con foto scollate e labbra gonfiate a dovere, condito da commenti in TV con quella voce flemmatica da tipico salotto di Barbara D’Urso.
La coerenza, insomma, resta merce rara. E nella Chiesa non mancano figure come Mauro Giuseppe Lepori, che con la loro sete di potere hanno trascinato nel baratro intere realtà affidate alla loro guida. E si ostinano a perseguitare e a fomentare queste invettive contro chi si è discostato dalla “setta” perché le deve punire. Se c’è una cosa che a Nostro Signore faceva andare il sangue al cervello era l’ipocrisia: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all'esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d'ipocrisia e d'iniquità”. Mt 23, 27-28
p.R.A. e F.P.
Silere non possum