Roma - Nella Chiesa cattolica di oggi la parola “abuso” è diventata onnipresente. Si parla – giustamente – di abusi sessuali, di potere, di coscienza, di abusi spirituali. Ma accanto a questa salutare presa di coscienza si sta imponendo un fenomeno speculare: la categoria di “abuso” viene talora usata da alcuni ambienti ecclesiastici come schermo, per coprire il proprio operato e rilegittimarsi invece di entrare davvero nel regime della verità. Non di rado, inoltre, l’accusa di abuso viene rivolta proprio contro coloro che, in realtà, sono oggetto di dinamiche abusive: come accade talvolta nelle relazioni familiari disfunzionali, quando chi esercita la violenza rovescia il ruolo e si presenta come vittima, accusando l’altro.

Il recente sussidio del Servizio nazionale per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili della CEI, intitolato L’abuso spirituale. Elementi di riconoscimento e di contesto, pubblicato nell’aprile 2025. Il testo, destinato a parrocchie, comunità e movimenti, offre una definizione ampia di abuso di potere, di coscienza e spirituale, insistendo sul carattere “sistemico” degli abusi e sulla responsabilità delle strutture ecclesiali. Alla fine del documento sono indicati i curatori – Anna Deodato, Gottfried Ugolini, Luisa Bove, don Enrico Parolari, Marco Rondonotti – e una lista di collaboratori, tra cui Luciano Manicardi.

È precisamente qui che nasce la domanda decisiva: chi parla oggi di abusi nella Chiesa? Da quale posizione, con quali competenze effettive e, soprattutto, con quale storia alle spalle? Se chi elabora i criteri per riconoscere abusi spirituali e di coscienza appartiene allo stesso sistema che, in diverse vicende, ha operato con metodi opachi, titoli discutibili e decisioni non trasparenti, il rischio è evidente: utilizzare il linguaggio degli “abusi” non per fare luce, ma per blindare un assetto di potere e rilegittimarlo agli occhi dell’opinione pubblica ecclesiale.

Chi parla di abusi alla Chiesa italiana?

Tra i curatori del sussidio figura don Enrico Parolari, sacerdote dell’arcidiocesi di Milano e psicoterapeuta, da anni incaricato – anche ufficialmente – dell’accompagnamento di numerosi presbiteri e religiosi “in difficoltà”, in particolare nell’area lombarda. È uno di quei preti cui i vescovi indirizzano sistematicamente i confratelli “da curare”. La sua attività si inserisce dentro una certa prassi ecclesiale che tende a leggere il disagio del clero quasi esclusivamente attraverso la lente dell’orientamento sessuale, concentrando lo sguardo su aspetti marginali, più che sull’immaturità affettivo-sessuale, sulle patologie profonde, sulla solitudine e sulle condizioni concrete di vita dei preti.

In un contesto in cui non sono mancati esiti drammatici – con sacerdoti inseriti in percorsi di accompagnamento seguiti da Parolari che si sono tolti la vita o sono stati chiamati a rispondere in tribunale per accuse di abusi su minori in diocesi del Nord Italia – è più che legittimo domandarsi quanto queste modalità di presa in carico siano realmente efficaci e quanto, invece, non finiscano per concentrare l’attenzione su ciò che è più facilmente controllabile e su cui molti chierici vivono una paura ingiustificata, cioè la sfera sessuale, lasciando in ombra tutto il resto.

Accanto a lui troviamo Anna Deodato, consacrata dell’Arcidiocesi di Milano, per anni presentata in ambito ecclesiale e mediatico come “psicologa e psicoterapeuta”, impegnata nella formazione del clero su abusi e tutela dei minori. Proprio sull’uso di questi titoli è intervenuto l’Ordine degli Psicologi della Lombardia, che ha formalmente diffidato Deodato dall’utilizzo improprio della qualifica professionale. È quanto meno singolare che la Chiesa italiana, mentre chiede – giustamente – trasparenza e rigore in materia di abusi, continui ad affidare ruoli chiave a figure la cui credibilità risulta seriamente contestata sia sul piano scientifico sia sul piano professionale. Non va dimenticato, inoltre, che il Servizio Tutela Minori continua a fare riferimento a padre Amedeo Cencini, e che molti dei documenti prodotti nell’ultimo decennio riportano anche la sua firma. Da anni Cencini propone letture dell’omosessualità e della sessualità del clero che numerosi psicologi e psicoterapeuti hanno criticato come superate e ascientifiche, prendendone pubblicamente le distanze e contestandone presupposti e implicazioni pastorali.

Enrico Parolari, Anna Deodato e Amedeo Cencini sono stati coinvolti anche nel caso della Comunità di Bose, chiamati a sostenere Luciano Manicardi nella gestione del processo che ha portato all’allontanamento del fondatore, secondo quelle dinamiche che Silere non possum ha descritto come un vero e proprio parricidio del padre. Le “grandi tecniche” messe in campo da questi illustri professionisti – secondo le testimonianze raccolte – sono state figurine, giochi per bambini e una sistematica demonizzazione di Enzo Bianchi, accompagnata dall’affermazione che vi fossero “gravi e indicibili cose” accadute nella comunità. Cose che, però, non sono mai state esplicitate né documentate neppure ai diretti interessati, dentro quel sistema ormai rodato nella Chiesa cattolica in cui si afferma di tutto senza che nulla venga davvero provato.

Tra i collaboratori di questo testo compare addirittura Luciano Manicardi, già priore del monastero di Bose, che ha guidato la comunità negli anni della visita apostolica e del decreto con cui è stato imposto l’allontanamento di Enzo Bianchi e di altri membri. Manicardi è stato per anni strettissimo collaboratore di Enzo Bianchi, ma non ha esitato a schierarsi con quanti sono arrivati fino alla Segreteria di Stato – pur non essendo questo il “dicastero” competente per la vicenda di Bose – con l’obiettivo di far fuori il fondatore. Il dicastero competente, infatti, era il Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita; eppure, anche in questa occasione, la Santa Sede ha mostrato quanto sia determinante avere “amicizie”, “conoscenze” e “agganci” per ottenere ciò che si vuole nella Chiesa Cattolica. Così Manicardi, da primo collaboratore di Bianchi, si è trasformato in uno dei suoi principali accusatori. Accuse che, tuttavia, ancora oggi, a distanza di anni, restano sconosciute nei loro contenuti concreti. Le motivazioni di quel provvedimento – reso pubblico da Silere non possum, scatenando l’ira sia di una parte della comunità sia della Segreteria di Stato – non sono mai state esposte in modo dettagliato né agli interessati né ai membri della comunità; Silere non possum ha mostrato il decreto nel quale non compaiono considerazioni puntuali né prove a sostegno di accuse specifiche. Si tratta, dunque, di un atto che, anche dal punto di vista canonico, appare privo di un reale fondamento.

Il punto è proprio questo: anche a Bose si è cominciato a parlare di abusi d’autorità, ma senza che venissero portati esempi concreti o prove di episodi reali; si è fatto riferimento alle “difficoltà caratteriali” del fondatore, ma questo – in sé – non basta per sostenere che egli abbia commesso abusi. Nel frattempo, il Dicastero per la Dottrina della Fede sta lavorando da anni per arrivare a una definizione chiara di abusi spirituali e di abusi di coscienza, ma al momento tutto continua a seguire il solito modus agendi della giustizia canonica: si lanciano accuse di abuso contro persone non protette, senza che esista una prova reale degli abusi contestati, mentre si garantisce una protezione spudorata a soggetti per i quali non solo esistono prove, ma risultano evidenti gli abusi commessi.

Un caso emblematico è quello di padre Luigi Gaetani, carmelitano che, a differenza di Enzo Bianchi, gode di solide amicizie e coperture. Nonostante il processo in corso e la documentazione prodotta dall’Ordine dei Carmelitani Scalzi, Gaetani continua a ricoprire incarichi anche nella Chiesa universale. All’assemblea della CEI di Assisi, Gaetani era presente davanti a tutti i vescovi italiani e al Papa stesso.

La definizione dell’abuso

Per capire il paradosso basta leggere con attenzione il testo della CEI. L’abuso viene definito come una “modalità distorta di esercitare il potere, di manipolare la fiducia di cui si gode e di strumentalizzare la relazione personale”, in un contesto segnato da asimmetria di potere e violazione della libertà. L’abuso di coscienza tocca il luogo più intimo della persona, quando un responsabile spirituale “manipola ed entra progressivamente nella sfera della coscienza […] per condizionare e ridurre fino ad annullare la sua libertà di giudizio e di scelta”, imponendosi come unico detentore del bene e del male. L’abuso spirituale viene descritto come violazione della dignità e della libertà della persona “nella sua autodeterminazione religiosa e spirituale”, attuato “in nome di Dio”, spesso attraverso “concezioni distorte dell’autorità, dell’obbedienza, della penitenza, di pratiche devozionali e disciplinari che rendono le persone più vulnerabili ad altre forme di abuso”. Il documento insiste su sistemi chiusi e piramidali, sulla “sacralizzazione di una persona” posta a capo del gruppo, sulla cultura dell’omertà che zittisce chi solleva dubbi e protegge l’immagine dell’istituzione più della persona ferita.

Se prendiamo sul serio queste affermazioni, esse diventano un criterio molto preciso per valutare anche alcune modalità concrete di gestione del dissenso e del conflitto nella Chiesa italiana, in particolare nelle comunità dove – stando alle testimonianze – proprio gli estensori di questo documento hanno esercitato forme di potere che ricalcano esattamente questo schema.

Quando è l’Eucaristia a essere abusata

Un punto centrale del sussidio è il richiamo alla coscienza come luogo inviolabile, dove la persona resta “sola con Dio, la cui voce risuona nell’intimità”. Citando il Concilio, il documento ricorda che nessuno può sostituirsi a questo spazio interiore. Ora, immaginiamo – e non è affatto un caso ipotetico perchè è accaduto a Bose per volontà di Amedeo Cencini e Luciano Manicardi – un contesto comunitario nel quale alcuni monaci, in piena crisi di fiducia verso i confratelli e verso il governo, dicono apertamente: “Non voglio comunicarmi durante la Messa perché non mi sento in comunione con la comunità, per come è stata gestita la situazione”. Di fronte a questa dichiarazione di coscienza, sono possibili due strade:

accompagnare la persona, rispettando il suo travaglio, magari proponendo un cammino di riconciliazione;

oppure forzare la coscienza, imponendo di accostarsi comunque all’eucaristia “per non dare scandalo”, o almeno di “mettersi in fila e compiere il gesto esteriore della riverenza”, per mostrare alla comunità un’immagine compatta di comunione.

Se si percorre la seconda strada - costringendo di fatto il consacrato a usare il corpo e il gesto liturgico contro ciò che egli riconosce in coscienza - si sta facendo esattamente quello che il documento CEI chiama abuso spirituale: manipolare il rapporto della persona con Dio e con i sacramenti per difendere un sistema, un’immagine di unità, un’autorità contestata.

In questo caso non è solo la persona a essere ferita. È l’eucaristia stessa a venire strumentalizzata come spettacolo di comunione, come palcoscenico di ipocrisia ecclesiastica. Obbligare qualcuno a comunicarsi quando dice di non sentirsi in comunione, o obbligarlo comunque a esibire il gesto esteriore per “non rompere la facciata”, significa attentare alla verità del sacramento, piegando il segno più sacro dell’unità della Chiesa a esigenze di gestione del consenso.

Il cortocircuito di una Chiesa non credibile

Il testo della CEI ha un merito: riconosce che l’abuso non è solo questione di “mele marce”, ma di contesti sistemici che favoriscono silenzi, coperture, sacralizzazione dell’autorità, cultura dell’errore mai ammesso.

Proprio per questo, però, colpisce il cortocircuito: un sussidio che denuncia sistemi chiusi e leader intoccabili è curato da persone appartenenti a quello stesso sistema, spesso coinvolte – a vario titolo – in vicende nelle quali le vittime hanno sperimentato esattamente ciò che il documento descrive come dinamica abusiva.

In altre parole: la diagnosi è corretta, ma il medico non è credibile se non è disposto a fare verità anche sulla propria storia. Non basta trovare un lessico nuovo – “abuso spirituale”, “abuso di coscienza”, “contesto sistemico” – se poi le prassi continuano a essere quelle di sempre: decreti non motivati, relazioni segrete, amicizie e contatti, persone messe a tacere, fondatori espulsi senza che questo e la comunità dei fedeli possano sapere su quali atti concreti si fondano decisioni così gravi.

Il rischio è chiaro: parlare di abusi (degli altri) per non toccare i propri abusi, trasformare la giusta attenzione alle vittime in un’operazione di immagine con cui l’istituzione si autoassolve e si presenta come “riformata”, senza aver davvero attraversato il giudizio della verità.

Marco Felipe Perfetti e d.G.V.
Silere non possum