Città del Vaticano — La Terza Assemblea sinodale delle Chiese in Italia si è conclusa con l’approvazione del Documento di sintesi, votato a larghissima maggioranza dopo quattro anni di confronto non semplice. Il testo passa ora ai Vescovi per l’attuazione. Alcuni passaggi hanno suscitato resistenze e sensibilità differenti: i capitoli dedicati ad affettività e sessualità hanno incontrato maggiori resistenze tra le donne, mentre quelli su strutture di governo e corresponsabilità hanno provocato le obiezioni più forti da parte degli uomini. È bene, però, non confondere il rumore di gruppi mediaticamente visibili - sia per quanto riguarda l'equipe sinodale, sia per quanto riguarda chi protesta per ottenere il riconoscimento delle proprie ideologie politico-liturgiche - con la realtà profonda della Chiesa. La Chiesa è cattolica e dimostra di essere universale: accoglie tutti e vive anzitutto del servizio quotidiano e discreto di milioni di persone nel mondo - laici, consacrati, ministri ordinati - che custodiscono comunità, educano, accompagnano, curano, pregano. Le assemblee, le equipe, i talk-show, le “fronde” opposte fanno notizia; ma la vita ecclesiale, quella che regge nel tempo, cresce nel silenzio operoso di chi serve.
I punti più contestati
Tra le mozioni che hanno suscitato la maggiore opposizione figurano quelle dedicate alla formazione affettiva e sessuale dei giovani, alle questioni di genere e al ruolo della donna nella comunità ecclesiale. Tra i testi più discussi, vi è quello che invita le Chiese locali — con il sostegno di una coordinazione nazionale — a costituire équipe interdiocesane incaricate di promuovere percorsi di formazione su relazioni, corporeità, affettività e sessualità, in collaborazione con la pastorale giovanile e familiare, con movimenti ecclesiali, associazioni e realtà civili. L’obiettivo è accompagnare preadolescenti, adolescenti e giovani in un cammino educativo integrale. Le resistenze emerse rivelano come, all’interno della Chiesa, permanga una difficoltà nel riconoscere quanto la maturazione affettiva sia parte essenziale dello sviluppo umano e spirituale della persona. D’altra parte, osservando la realtà concreta di molte comunità e, talvolta, delle stesse strutture formative del clero, appare evidente che tale compito non possa essere affidato alla Chiesa come istituzione, ma richieda il contributo di professionisti competenti, psicologi e pedagogisti seri, capaci di un accompagnamento reale. Il nodo di fondo è culturale: in molti ambienti cattolici si continua a pensare che l’educazione affettiva debba essere lasciata unicamente alle famiglie, dimenticando però quanto spesso proprio le famiglie — in particolare quelle che si definiscono cattoliche — si trovino oggi disorientate e fragili in questo ambito. Non meno significative sono state le critiche rivolte ai passaggi che menzionavano l’identità di genere e l’orientamento sessuale. Formulazioni che non introducevano alcuna teoria, ma semplicemente riaffermavano un principio evangelico di fondo: nessuna persona deve essere discriminata. E qui sorge una domanda inevitabile: cosa può esserci di anomalo, per un cattolico, nel ricordare che la dignità di ogni essere umano viene prima di tutto?
La proposta è stata comunque approvata, ma con un margine di consenso più basso rispetto alla media dell’assemblea.
Diverso è invece il discorso riguardo alla proposta che chiedeva alla CEI di sostenere, con la preghiera e la riflessione, le “giornate” promosse dalla società civile per contrastare ogni forma di violenza e discriminazione — dalle iniziative contro la violenza di genere al femminicidio, fino a quelle contro omofobia e transfobia. Come è stato più volte ricordato, la Chiesa non ha bisogno di adottare il linguaggio del mondo per annunciare il Vangelo di Gesù Cristo — che resta, anche oggi, il suo compito primario. Ci sono temi e modalità di sensibilizzazione che appartengono legittimamente alla sfera politica o sociale, ma che rischiano di essere facilmente strumentalizzati. Proprio per questo, non è necessario che la Chiesa vi aderisca in modo formale o mimetico. La contestazione di questo punto, dunque, non nasce necessariamente da chiusura o indifferenza verso le vittime di violenza, ma dal desiderio di preservare la libertà e la specificità del linguaggio ecclesiale, che non ha bisogno di imitare le logiche mediatiche o ideologiche per testimoniare la verità del Vangelo.
Le schede di voto mostrano che, accanto a questi punti, altre mozioni hanno ricevuto un numero consistente di voti contrari: le proposte che chiedevano di ampliare la corresponsabilità dei laici e di riconoscere alle donne ruoli di coordinamento nella vita pastorale, hanno registrato rispettivamente 154 e 185 voti contrari; le proposte relative al discernimento comunitario, alla formazione condivisa del clero e dei laici e alla riforma degli organismi di partecipazione, hanno raccolto un dissenso significativo; anche i punti sulla riconfigurazione territoriale delle parrocchie e sulla nascita delle cosiddette “comunità di comunità” hanno suscitato perplessità.
Discutiamo di cosa?
«Abbiamo privilegiato i volti ai numeri, i sorrisi agli emendamenti, le esperienze ai ragionamenti», ha detto Mons. Castellucci, tentando di mascherare le divisioni interne.Il presule ha insistito sul fatto che la sinodalità non è un processo amministrativo, ma un’esperienza spirituale: un cammino di Chiesa che si lascia “inquietare dallo Spirito” e si riconosce nella diversità dei carismi.
Nel leggere le mozioni e i risultati delle votazioni della terza Assemblea del Cammino sinodale, però, si ha l’impressione che il dibattito ecclesiale italiano stia progressivamente assumendo i toni e le logiche di un organismo politico più che spirituale. La quasi unanimità registrata su proposte riguardanti la pace, l’ecologia, la giustizia sociale e la cittadinanza contrasta con la minor convergenza sulle questioni più strettamente spirituali o ecclesiologiche. Ciò rivela un orientamento culturale che privilegia la rilevanza pubblica della Chiesa rispetto alla sua radice contemplativa. È come se, nel tentativo di dialogare col mondo, la comunità cristiana rischiasse di perdere quella distanza interiore che le permette di parlarne profeticamente. Romano Guardini, in un passaggio de La fine dell’epoca moderna, avvertiva che la Chiesa smarrisce se stessa quando “si adatta al mondo invece di giudicarlo nella luce di Dio”. Eppure, è proprio da questa luce che nasce ogni autentica missione: non da un’adesione ai linguaggi della società, ma da una conversione dello sguardo.
Le mozioni sinodali, spesso redatte in linguaggio tecnocratico (“tavoli di lavoro”, “osservatori”, “protocolli di sostenibilità”), mostrano il rischio di una Chiesa funzionale, che si pensa come “soggetto politico fra gli altri”, capace di incidere nel dibattito civile ma non più di condurre alla preghiera. Hannah Arendt, analizzando la modernità, osservava che la perdita della dimensione contemplativa genera un’umanità attiva ma smarrita, capace di costruire ma non più di orientare. In un certo senso, anche la Chiesa sinodale italiana sembra trovarsi di fronte a questo bivio: essere comunità orante o comunità operativa.
Si parla molto di “dialogo” e di “corresponsabilità”, ma raramente di adorazione, silenzio, discernimento spirituale. L’assemblea che discute di pace e non di preghiera, di ambiente e non di sacramento, rischia di essere più vicina ad una ONG che al Cenacolo. Il cardinale Ratzinger ricordava che “l’attivismo ecclesiale è spesso una fuga dalla fede”, perché senza il primato della preghiera “la Chiesa diventa una ONG pietosa, ma priva di Spirito”. Non si tratta di opporre l’azione alla contemplazione, ma di restituire alla prima la sua radice nella seconda. Finché la Chiesa italiana non tornerà a chiedersi non solo che cosa deve fare, ma soprattutto chi deve essere davanti a Dio, ogni riforma rischierà di restare una riorganizzazione amministrativa del sacro, più che una rinascita evangelica.
Il Documento di sintesi passa ora ai Vescovi, che dovranno tradurlo in orientamenti per le Chiese locali. Ma, a ben vedere, il passaggio di consegne sembra più formale che sostanziale. Come hanno sottolineato Castellucci e Zuppi, l’essenziale sarebbe già accaduto: una Chiesa che discute e decide insieme sarebbe di per sé segno dello Spirito che “soffia dove vuole”. È una formula inquietante. Perché il punto non è tanto che la Chiesa discuta, quanto che cosa discute e a quale fine. Se il confronto sinodale diventa un esercizio di metodo, un rito partecipativo privo di contenuto teologico, allora rischia di ridursi a una liturgia del processo, dove lo Spirito viene evocato ma non invocato. In altre parole, una Chiesa che parla di tutto ma raramente di Dio.
d.F.R.
Silere non possum