Firenze - Nelle scorse ore mi sono imbattuto nell’ennesimo commento intriso di livore, lasciato - come troppo spesso accade - da un prete. Uno di quelli che, con la stessa disinvoltura con cui invoca principi di dottrina, di morale e perfino di estetica ecclesiastica, non esita poi a riversare amarezza e sarcasmo sotto un semplice reel.


Il video in questione ritrae un prete che si interroga, con genuina semplicità: «Cosa vedono di me gli altri se non indosso il colletto?» Eppure, il suo confratello si sente “messo nel mirino”, come se quella domanda non fosse un atto di riflessione personale, ma un attacco alla categoria. Questo riflesso di difesa - questo sentirsi chiamati in causa - racconta molto più di quanto sembri: è il sintomo di una sensibilità ecclesiale ferita, in cui l’identità di ruolo, quando si percepisce fragile, trasforma la domanda in minaccia.

Provo a tenere insieme tre lenti - psicologica, sociologica e antropologica - e a mostrare come, in controluce, emerga anche una questione teologica: non è l’abito a rendere visibile il Vangelo, ma il modo in cui l’io credente attraversa la prova della propria liminalità.

Quando l’io sente vacillare il segno

Nel registro psicologico, la reazione indignata è comprensibile: il prete legge l’interrogativo del confratello come minaccia alla categoria. In termini eriksoniani, tocca il nodo “identità vs. diffusione di identità”: in fasi di crisi, l’io può irrigidirsi su marcatori esterni per difendersi dalla sensazione di essere “meno” senza di essi. Erikson ricorda che ogni fase del ciclo di vita comporta un compito specifico e che, se fallisce, subentrano difese rigide e ansiose (identità/diffusione, intimità/isolamento, ecc.)  .

Nelle tensioni collettive, il sistema tende a “irrobustire l’ego” (bolstering) per contenere l’ansia; ma se questa logica diventa permanente - invece che rimedio per emergenze - finisce per rinviare all’infinito le revisioni necessarie delle condizioni che generano la fragilità. Tradotto ecclesialmente: se l’insicurezza pastorale si cura solo con la divisa (il colletto), l’io ministeriale non attraversa la crisi, la copre.

C’è poi un punto decisivo: una comunità matura deve concedere spazi di prova in cui è lecito sospendere l’ovvio. Erikson chiama questo spazio moratorium psicosociale: “un mondo tra infanzia ed età adulta” in cui alternative e limiti si esplorano senza sanzioni, come in un “gioco sociale” serio. Nella Chiesa, questo “moratorium” equivale al diritto di domandare: che cosa comunica di me il segno che porto? Proibire la domanda significa impedire il passaggio dall’obbedienza alla forma all’adesione personale.

Qui vorrei porre una domanda semplice ma scomoda: perché tanti - e non parlo dei laici, ma proprio di preti - sentono il bisogno di commentare, giudicare, ironizzare sotto i post dei confratelli, invece di avvicinarsi e chiedere: “Perché hai fatto questa scelta?”

Perché, invece del dialogo, prevale il livore? Si va da chi usa la “lotta agli abusi” come pretesto per ottenere visibilità e accusare gli altri di narcisismo - dimenticando che almeno quei “narcisisti” hanno una luce propria e non necessitano di piattaforme social dove mettere alla berlina i confratelli senza alcun processo per poter ottenere qualche like - fino a chi si esibisce sui social in video grotteschi, con la caricatura del parroco boomer più simile alla megera settantenne di paese facendo passare il tutto come dei semplici scherzi da prete. Eppure, nessuno di questi trova il coraggio di un gesto semplice e fraterno: domandare prima di aizzare le folle.

Leone XIV
agli universitari qualche giorno fa ha detto: «Oggi siamo diventati esperti di dettagli infinitesimali di realtà, ma siamo incapaci di avere di nuovo una visione d’insieme, una visione che tenga insieme le cose attraverso un significato più grande e più profondo; l’esperienza cristiana, invece, ci vuole insegnare a guardare la vita e la realtà con uno sguardo unitario, capace di abbracciare tutto rifiutando ogni logica parziale» e ancora «La condizione dell’ignoranza, che spesso è legata alla chiusura e alla mancanza di inquietudine spirituale e intellettuale, assomiglia alla condizione di questa donna: essa è tutta curva, ripiegata su sé stessa, perciò le è impossibile guardare oltre sé stessa. Quando l’essere umano è incapace di vedere aldilà di sé, della propria esperienza, delle proprie idee e convinzioni, dei propri schemi, allora rimane imprigionato, rimane schiavo, incapace di maturare un giudizio proprio». 

Nell'udienza giubilare di sabato scorso, il Santo Padre ha detto: «È così anche nella Chiesa di oggi. Quante domande mettono in crisi il nostro insegnamento! Domande dei giovani, domande dei poveri, domande delle donne, domande di chi è stato messo in silenzio o condannato, perché diverso dalla maggioranza. Siamo in un tempo benedetto: quante domande! La Chiesa diventa esperta di umanità, se cammina con l’umanità e ha nel cuore l’eco delle sue domande». 

L’abito come capitale simbolico conteso

Il richiamo alla divisa (“vigile, poliziotto…”) segnala un bisogno di riconoscibilità e di autorità incorporata. Con le parole di Bordieu, i gruppi lottano per l’appropriazione dei segni di distinzione e per “l’imposizione dello stile di vita legittimo”; sono lotte simboliche su oggetti e pratiche “classificati e classificanti”  . Il colletto, allora, non è solo un segno religioso: è un emblema di classe sacerdotale, percepito come bene scarso che garantisce credito in uno spazio sociale dove l’autorità religiosa non è più data per scontata.

Questa pressione spinge a sacralizzare la forma (il “si deve”), riducendo la domanda personale a gesto “disonorevole”, come se l’esame di coscienza sul segno fosse atto ostile verso il corpo ecclesiale. Ma proprio Bordieu nota che le pratiche legittime sopravvivono attraverso continue riallocazioni di senso; talvolta è il modo di consumo a rifare l’oggetto (anche l’oggetto “alto”) come nuovo distintivo. È dunque legittimo chiedere come un segno venga ricevuto oggi e se produca ciò che promette.

Liminalità, communitas e tabù della domanda

Turner aiuta a leggere il nervo scoperto: ogni società oscilla tra struttura (ruoli, istituzioni) e antistruttura (spazi di sospensione in cui si rielabora il senso). La liminalità non è anarchia: è la soglia in cui la persona e la comunità ritrovano il significato globale e si rigenerano come communitas  .

Due note, decisive per il nostro caso:

la liminalità è sacra ed è spesso protetta da tabù, proprio perché è energia potente e ambivalente; va custodita, non soppressa;

i sistemi simbolici religiosi “si definiscono all’interno dell’antistruttura”: è lì che la vita sociale recupera senso e l’individuo la propria responsabilità; communitas e liminalità sono condizioni per parlare la lingua universale dello Spirito.

Se il ministero non concede soglie (tempi, luoghi, domande) in cui l’abito possa essere messo fra parentesi per interrogare la sua efficacia simbolica, la struttura si sclerotizza e il segno perde la sua forza performativa. La domanda del sacerdote (“chi sono senza colletto?”) è un atto liminale: non delegittima il segno; si domanda quando e come può essere utile. 

Perché “sembra vietato” domandare

Il sacerdote indignato dice: «Basta, finiscila…». Qui la psicologia incontra la sociologia:

Paura di irrilevanza → si preferisce blindare i marcatori (difesa dell’Io).
Concorrenza dei segni nello spazio pubblico → si intensifica la lotta simbolica per l’uniforme (difesa del gruppo).
Elusione della liminalità → si demonizza la sospensione come tradimento (difesa dell’istituzione).

In termini eriksoniani, l’ansia di gruppo genera segnali d’allarme (dolore/ansia/panico) quando teme la “perdita di identità” collettiva; ma proprio in queste fasi occorre orchestrare i passaggi, non negarli. E in termini turneriani, una comunità che non attraversa liminalità perde la capacità di trasformarsi: i simboli restano, ma non operano; non “condensano” più riferimenti affettivi e normativi, non trasformano le relazioni.

Che cosa comunica (e produce) il segno?

La domanda non è se indossare o no il colletto ma che cosa comunica in quel contesto e che cosa produce: distanza o prossimità? Autorità o giudizio? L’onore del segno non sta nel non poter essere interrogato, ma nel reggere l’interrogazione.

Ci sono luoghi - quelli che chiamiamo comunemente terre di missione - dove il sacerdote non indossa il colletto. Non perché lo rifiuti o lo disprezzi, ma semplicemente perché non lo ritiene necessario al fine: far incontrare Cristo.  Eppure, ciò che altrove ci appare normale - un prete, spesso anziano, con una camicia dai colori vivaci e fantasie locali - diventa improvvisamente intollerabile se a farlo è un sacerdote giovane, che in una città dell’Europa Occidentale indossa una semplice T-shirt e un paio di jeans. Qual è la differenza? Nessuna.

Come il missionario si “mescola” al popolo di Dio in Africa, così il sacerdote giovane si immerge tra i suoi coetanei nella metropoli occidentale, cercando di essere segno e presenza dentro la vita quotidiana, non al margine di essa. Forse andrebbe spiegato a certi personaggi che fanno “pastorale” su YouTube o sotto i post di Facebook, che oggi è molto più terra di missione una città come Firenze che Ourous, in Guinea.

Domande-ponte (non accuse)

Dove il colletto apre ascolto e orienta alla fede, e dove invece chiude?
Quando l’autenticità personale (linguaggio, gesti, stile) veicola meglio il Vangelo del marcatore visibile - e viceversa?
Quali spazi liminali garantiamo ai presbiteri perché possano provare, sbagliare, ritarare i segni senza sentirsi “contro” la categoria?

Una grammatica per “domandare senza demolire”

Riconoscere il valore del segno (la struttura).
Aprire soglie protette di verifica (l’anti-struttura: ritiri, fraternità, supervisione pastorale).
Restituire alla comunità quanto emerso (nuova communitas).

È la dialettica che Turner descrive: struttura ↔ liminalità ↔ struttura; la vita ecclesiale si ammala quando una delle tre fasi viene saltata.

Il coraggio di aprire gli occhi

Dire «non domandare» può offrire sollievo a breve termine; ma, come nota Erikson, l’uso indiscriminato di misure di rinforzo dell’ego rinvia la revisione delle condizioni che indeboliscono l’Io e rende socialmente pericolosa la stagnazione. Il confratello che chiede chi sono senza colletto non attacca i preti: ricorda ai preti che l’identità evangelica è più grande di ogni divisa, e che il segno — per non diventare feticcio — deve nascere sempre di nuovo da una soglia attraversata insieme, là dove la Chiesa ridiventa communitas e lo Spirito ridà voce ai suoi simboli  

d.C.A.
Silere non possum