Roma - Nelle nostre scuole si parla di competenze, risultati, merito. Si contano i voti, si calcolano i rendimenti, si allestiscono test e classifiche. Ma chi misura la crescita dell’anima? Chi domanda se, dentro queste aule, si impara davvero a vivere, a scegliere, ad amare? L’educazione non è un algoritmo: è un’arte fragile, fatta di sguardi, errori, ascolto. Non serve solo a riempire la mente, ma a mettere in moto l’umano.

Ogni vera educazione nasce da un atto di fiducia. È credere che in ogni ragazzo ci sia un seme di infinito, anche quando sembra spento. Non si tratta di “insegnare” ma di accendere. Don Lorenzo Milani scriveva: «Non c’è nulla di più ingiusto che fare parti uguali fra disuguali». Era un modo per dire che l’uguaglianza non si ottiene appiattendo, ma accompagnando ciascuno nella propria unicità. A Barbiana non si bocciava non per bontà, ma per giustizia: perché il fallimento di uno era la sconfitta di tutti. Ogni ragazzo era una parola da restituire al mondo.

Ma l’educazione non è solo giustizia, è anche rischio. «La prima preoccupazione di una vera educazione è educare il cuore dell’uomo così come Dio l’ha fatto» scriveva don Luigi Giussani. Il cuore è il centro, la sorgente del desiderio, il luogo dove nasce la sete di verità. Se la scuola parla solo alla testa, spegne quella sete e lascia crescere uomini efficienti ma vuoti. Educare, allora, significa introdurre alla realtà totale, dove anche il dubbio, la fragilità e la domanda diventano materia viva di apprendimento.

Eppure, troppo spesso, la scuola sembra dimenticare che la vita non è una competenza. L’intelligenza, senza pietà, genera potere; ma il sapere che non tocca il cuore diventa sterile. L’educazione autentica non separa sapere e vita, ragione e affezione. È una forma di giustizia che restituisce dignità, ed è anche una forma di fede — quella di chi crede che l’altro possa cambiare, possa rifiorire.

Forse è questo che manca oggi: adulti capaci di testimoniare una passione felice, come direbbe Alessandro D’Avenia. Nella L’arte di essere fragili scrive che «abbiamo dato ai ragazzi tutto per godere la vita, ma non una ragione per viverla». Senza adulti innamorati della verità, la scuola diventa un deserto dove si sopravvive per abitudine. L’educatore, invece, è colui che rischia sé stesso davanti all’altro, che si lascia ferire, che non ha paura di dire “non so”, ma continua a cercare insieme. È questa la fragilità che salva: insegnare a essere vivi, non perfetti.

Don Milani insegnava ai suoi ragazzi che la parola è potere solo se diventa strumento di libertà; Giussani ricordava che la libertà è tale solo se orientata alla verità; D’Avenia aggiunge che la verità, se non è amata, non cambia nessuno. È un unico respiro, una stessa visione: la scuola è il luogo in cui si impara a essere umani.

Tornare all’uomo, prima che al programma: ecco la sfida. Perché ogni lezione che non tocca il cuore, ogni voto che non genera speranza, ogni aula che non educa alla vita, è una sconfitta civile e spirituale. Ma finché ci sarà un insegnante che guarda un ragazzo come una promessa e non un problema, la scuola potrà ancora essere il laboratorio dell’umano, dove non si impara solo a sapere, ma a diventare uomini.

F.R.
Silere non possum