«Ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua», scriveva Papa Francesco in Evangelii Gaudium. 

Nei giorni scorsi l’attore italiano Roberto Benigni è stato ricevuto dal Santo Padre Leone XIV e in televisione è stato ospitato per raccontare la figura di San Pietro. Questo evento ha scatenato una serie di reazioni che, come di consueto, sono amplificate dai social. Molti, soprattutto tra coloro che si definiscono “cattolici praticanti”, non hanno reagito con stupore grato davanti a un fatto oggettivo: un artista popolare, con una platea enorme, parla di fede senza imbarazzo, con passione, portando l’apostolo Pietro al centro della scena pubblica. Invece di riconoscere un varco - piccolo o grande, ma reale - si è vista scattare la vecchia tentazione: la misurazione. Si pesa la fede altrui, si passano al setaccio intenzioni e biografie, si fa la contabilità della grazia: “quanto è autentico?”, “quanto è coerente?”, “da che parte sta?”, “è uno dei nostri?”. Qui non è in gioco il discernimento serio; è in gioco la gelosia religiosa, l’invidia spirituale, l’incapacità di gioire quando il bene accade altrove e magari attraverso strade che noi non controlliamo.

Sia chiaro, il cristiano non deve essere un ingenuo: «non spegnete lo Spirito… vagliate ogni cosa» (1Ts 5,19-21). Il discernimento va fatto, ed è doveroso. Ma il discernimento è un atto di carità e di verità; l’invidia è un atto di difesa del proprio ego religioso. Il discernimento cerca ciò che edifica; l’invidia cerca ciò che smonta.

Il Vangelo, del resto, non ci risparmia: questa dinamica è antica quanto la sequela. I discepoli stessi cadono nella gelosia di appartenenza quando cercano di impedire a uno che compie il bene “perché non ci segue” (Mc 9,38-40). Non è zelo per Cristo: è bisogno di esclusiva. E la scena si ripete in forme diverse: i “giusti” che mormorano perché Gesù mangia con i peccatori (Lc 5,29-32); la folla perbene che sussurra scandalizzata quando entra in casa di Zaccheo (Lc 19,1-10); l’indignazione elegante di Simone il fariseo davanti alla donna che piange e ama (Lc 7,36-50). In ciascun caso, la misericordia viene letta come un’ingiustizia, e la grazia come un affronto.

La parabola che inchioda questo meccanismo è quella del Padre misericordioso: il figlio maggiore resta fuori, incapace di entrare nella festa (Lc 15,25-32). È un uomo “in regola”, ma senza gioia. Non sopporta che il bene dell’altro - il ritorno, la vita ritrovata - diventi motivo di musica. E qui il Vangelo è spietatamente realistico: si può essere vicini alla casa e lontani dal cuore. Sant’Agostino, leggendo quella pagina, mostra quanto sia facile trasformare la “fedeltà” in risentimento, quando la misericordia non passa più da me ma mi supera. 

Lo stesso nervo scoperto emerge nella parabola dei lavoratori della vigna: la giustizia diventa rancore quando assume la forma del confronto (“io ho lavorato di più, quindi valgo di più”). E il padrone smaschera l’invidia con una domanda che brucia: se io sono buono, perché tu ti rattristi? (Mt 20,1-16). È la logica del bilancino: misurare gli altri per non dover guardare la propria povertà interiore.

San Tommaso d’Aquino chiama le cose col loro nome: l’invidia è “tristezza per il bene altrui”, quando il bene dell’altro viene percepito come diminuzione della propria. Non è un peccato “rumoroso”; è un veleno silenzioso. E il Catechismo è altrettanto netto: il decimo comandamento esige che si bandisca dal cuore l’invidia, perché può condurre ai peggiori misfatti; ricorda perfino la parola tagliente della Sapienza: «la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo» (Sap 2,24). 

Quando questa tristezza prende casa nella vita ecclesiale, accade una cosa paradossale: proprio coloro che dovrebbero custodire la gioia della salvezza diventano generatori di sospetto. È qui che la Scrittura diventa molto concreta. San Giacomo collega la gelosia e lo spirito di contesa a disordine e cattive azioni (Gc 3,14-16). San Paolo la mette nel catalogo delle opere che deformano la vita comunitaria (Gal 5,19-26). E nello stesso tempo definisce il criterio opposto con una frase che dovrebbe essere un esame di coscienza quotidiano per chi scrive, commenta, giudica: «la carità non è invidiosa» (1Cor 13,4-7).

C’è poi un effetto collaterale che spesso non consideriamo: l’invidia religiosa diventa scandalo, cioè inciampo. Il Vangelo è drastico con chi mette ostacoli ai piccoli (Mt 18,6-7). E Paolo chiede una responsabilità adulta: non porre inciampo al fratello (Rm 14,13), cercare ciò che conduce alla pace (Rm 14,19). Qui il tema non è “difendere l’istituzione” o “salvare l’immagine”; è non trasformare il cristianesimo in una barriera proprio mentre qualcuno prova ad avvicinarsi.

Papa Francesco descrisse molto bene la patologia che nasce quando la fede perde la gioia: cristiani che sembrano vivere una Quaresima senza Pasqua. E in Gaudete et exsultate richiama la dinamica corrosiva di un mondo di dicerie e demolizioni, dove criticare e distruggere diventa quasi una soddisfazione: non è beatitudine, è inimicizia della pace. Se questa logica entra nella vita ecclesiale, non resta solo una brutta abitudine comunicativa: diventa un modo di stare davanti alla grazia altrui con le armi spuntate del sarcasmo e dell’allusione.

E questo modus agendi lo vediamo ogni giorno: persone che si ergono a giudici senza avere alcuna credibilità morale o intellettuale. C’è chi pontifica su presunti “allontanamenti” altrui, mentre la sua stessa storia è segnata da cacciate, esclusioni ed esili; chi brandisce l’arma del sospetto e della delegittimazione, pur non avendo né autorevolezza né credibilità; chi si costruisce titoli, ruoli e patenti di ortodossia e poi le usa per lanciare invettive contro chi, a loro dire, sarebbe “meno cattolico” di loro. È una dinamica riconoscibile: non è discernimento, è rivalsa. E in questo clima, anche Benigni finisce facilmente nel mirino di chi ha bisogno di un bersaglio per poter vivere. “Ha più follower di me”, “troppe persone lo seguono”, “troppi giovani partecipano alla sua scuola di comunità”, “ha più notizie di quelle che ho io”, ecc… I motivi possono essere moltissimi, quando vivi un disagio interiore, ciò che fanno gli altri diventa per te motivo di ansia.

Eppure, qualcuno non ha ben chiaro che la fede non è un brevetto, né una performance. Non nasce dalla forza di volontà, né dalla superiorità morale. La fede è dono. Paolo lo scrive senza margini: «Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi: è il dono di Dio» (Ef 2,8-9). Gesù lo dice in termini ancora più radicali: «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre» (Gv 6,44). E Giovanni mette la chiave nell’amore preveniente: non siamo noi ad amare per primi; amiamo perché siamo stati amati per primi (1Gv 4,10 19). Perfino il nostro “volere” viene messo in prospettiva: è Dio che opera in noi il volere e l’agire (Fil 2,13).

Se la fede è dono, allora il bene che accade nell’altro non è una minaccia alla mia identità: è un motivo di gratitudine. È qui che le parabole della misericordia diventano un termometro: in cielo c’è più gioia per un solo peccatore che si converte (Lc 15,7.10). Se io non riesco a gioire di ciò che rallegra il cielo, forse non sto facendo discernimento: forse sto difendendo una versione di me stesso. E qui Benedetto XVI offre un passaggio decisivo: la preghiera come “scuola della speranza” è anche un luogo di purificazione delle intenzioni. Nella preghiera, scrive, l’uomo deve imparare che non può pregare contro l’altro; deve purificare desideri e speranze. È un colpo di luce: l’invidia religiosa, prima ancora che sui social o nei commenti, si cura in ginocchio, perché lì cade la finzione dell’innocenza e si vede la radice - la tristezza per il bene altrui che non vogliamo confessare nemmeno a noi stessi.

Per questo, tornando a Benigni e al suo spettacolo: il criterio non è canonizzare un artista, né blindare una trasmissione come se fosse un atto di magistero. Il criterio è più umile e più evangelico: riconoscere che Dio può aprire varchi dove noi vediamo solo “categorie”. Che può attirare cuori con strade laterali. Che può far nascere domande anche da una sera in televisione. E che il compito del cristiano non è sorvegliare la soglia con diffidenza, ma accompagnare la possibilità di una domanda con la carità che non invidia.

Il figlio maggiore non era un ateo: era un credente senza festa. La parabola non dice che aveva torto su tutto; dice che si è perso la cosa più cristiana: la gioia. Il Vangelo non ci chiede di spegnere la ragione; ci chiede di spegnere il risentimento. E di fare spazio a questa verità, che salva anche noi: la fede non è un possesso da difendere, ma un dono da ricevere - e, quando lo si vede accadere nell’altro, da celebrare.

d.S.R.
Silere non possum