Città del Vaticano – Il 4 dicembre 1963 Paolo VI promulgava Sacrosanctum Concilium, la prima Costituzione del Concilio Vaticano II, approvata quasi all’unanimità (2147 voti favorevoli, 4 contrari). Sessantadue anni dopo, quel testo rimane il fondamento della riforma liturgica cattolica, ma anche un cantiere aperto. Perché, come riconobbe Papa Francesco nel 2014, «rimane ancora molto da fare per una corretta e completa assimilazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia» .
Questa constatazione non è un giudizio severo sul passato, ma un invito a ripensare il cammino compiuto, confrontando il testo della Costituzione, l’interpretazione dei Papi e la ricezione ecclesiale. Il sessantaduesimo anniversario non è quindi una celebrazione autoreferenziale: è un’occasione per tornare alle fonti, verificare ciò che non ha funzionato e recuperare la visione più profonda che aveva ispirato i Padri conciliari.
Una riforma nata dal primato di Dio
Sacrosanctum Concilium non nacque come un documento tecnico. Il suo proemio chiarisce subito lo scopo: «far crescere ogni giorno più la vita cristiana», «favorire l’unione di tutti i credenti», «rinvigorire ciò che giova a chiamare tutti nel seno della Chiesa». La liturgia è presentata come cuore pulsante della vita ecclesiale, «azione sacra per eccellenza», nella quale Cristo è realmente presente «nella persona del ministro», «nelle specie eucaristiche», «nella Parola», «nell’assemblea».
Non si trattava, dunque, di un’aggiustatura rituale, ma di mettere Dio al centro. Non a caso Benedetto XVI, ricordando gli inizi del Concilio, affermò che iniziare dalla liturgia significò affermare il «primato dell’adorazione»: «Operi Dei nihil praeponatur». E allo stesso modo Leone XIV, parlando ai responsabili della pastorale liturgica, ribadisce che la riforma si radica nella fedeltà alla Sacrosanctum Concilium e nella tradizione viva della Chiesa, che «forma i fedeli al mistero celebrato» e chiede un rinnovato investimento sulla formazione liturgica, vero nodo irrisolto degli ultimi decenni: «Si sono compiuti tanti passi in avanti, ma c’è ancora molta strada da percorrere».
Due livelli: il Concilio dei testi e quello dei media
Sessantadue anni dopo, uno dei punti più delicati riguarda la ricezione del Concilio. Benedetto XVI lo aveva espresso con lucidità nel celebre discorso del 14 febbraio 2013 ai parroci di Roma: la storia recente della Chiesa è stata segnata da due letture parallele, spesso contrapposte, del Vaticano II. Una è quella reale, «dei testi», frutto della volontà dei Padri conciliari; l’altra è quella mediatica, che produsse un “meta-concilio”, più ideologico che teologico, che impose interpretazioni arbitrarie, soprattutto nell’ambito liturgico.
Ratzinger osservava che le speranze del movimento liturgico erano legittime, ma che la ricezione postconciliare aveva generato «deformazioni al limite del sopportabile», con prassi in cui la presenza di Dio sembrava scomparire. Questa diagnosi non era una condanna del Concilio, ma una difesa della sua autentica intenzione: ricondurre la liturgia alla sua natura più vera, dove il popolo di Dio partecipa, sì, ma alla Pasqua di Cristo, non a una rappresentazione comunitaria autoreferenziale.
Il discernimento necessario: progresso e continuità
Il cinquantesimo anniversario della Costituzione, celebrato nel Simposio del 2014, aveva già evidenziato la stessa tensione. Il cardinale Cañizares definiva Sacrosanctum Concilium un «dono immenso» ma anche un «impegno» ancora in atto: «molto si è fatto – è vero – ma molto resta ancora da fare».
Il nuovo movimento liturgico auspicato da Joseph Ratzinger non consisteva in un ritorno nostalgico al passato né in un’accelerazione creativa, ma in un’opera di chiarificazione: recuperare la continuità organica della tradizione.Un’espressione di Sacrosanctum Concilium resta decisiva e spesso ignorata: «Non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente da quelle già esistenti» (SC 23).
Questa frase, commentata più volte dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, non è un freno ma un criterio: il rinnovamento non può spezzare la continuità della Chiesa. Dove ciò è accaduto, si è generata confusione; dove si è rimasti fedeli a questa linea, la riforma ha portato frutti.
L’appello di Leone XIV: la formazione come urgenza
La riflessione di Leone XIV si inserisce nella stessa prospettiva. Egli sottolinea, citando Desiderio desideravi, che oggi il nodo decisivo non è la riforma dei libri liturgici, ma la formazione: capire la teologia della liturgia, il suo linguaggio simbolico, il suo radicamento biblico. «C’è ancora molta strada da percorrere», afferma, invitando a formare lettori, cantori, ministri e fedeli perché ogni celebrazione sia realmente luogo di incontro con il Mistero e non semplice sequenza di gesti.
Questo è il vero compito dei prossimi anni. Perché la liturgia, come insegna Sacrosanctum Concilium, è «fonte e culmine» della vita ecclesiale (SC 10) e non un settore tra gli altri.
Sessantadue anni dopo: che cosa resta da comprendere
Guardando alla storia recente, la questione appare chiara: la riforma liturgica voluta dal Concilio non è stata compresa nel suo insieme. Alcuni l’hanno ridotta a un cambio di lingua o di rubriche; altri l’hanno trasformata in progetto ideologico; altri ancora hanno pensato di poterne fare a meno. Ma la riforma non era nulla di tutto questo. Essa chiedeva tre cose:
Rimettere Dio al centro della celebrazione: la liturgia come azione di Cristo, non dell’assemblea.
Formare il popolo cristiano perché potesse partecipare in modo consapevole.
Custodire la continuità della tradizione, evitando strappi e interpretazioni personali.
Sessantadue anni dopo, il punto nevralgico rimane lo stesso: la formazione. Non si tratta di cambiare ancora, ma di capire ciò che già abbiamo ricevuto.
Tornare al Concilio per andare avanti
Sessantadue anni dopo Sacrosanctum Concilium, la domanda è semplice e radicale: abbiamo davvero compreso la liturgia? E siamo disposti a lasciarci formare da essa? La risposta non è un giudizio sul passato, ma un impegno per il futuro. Perché la riforma liturgica è un dono ancora da scoprire. E la Chiesa del nostro tempo, attraversata da mutamenti rapidi e profondi, ha bisogno più che mai della luce che scaturisce dalla liturgia: luogo in cui Dio si fa vicino e plasma il suo popolo.
d.M.Z.
Silere non possum