Tutto comincia con una domanda. Eppure, in questa storia, è proprio quella domanda a costare il lavoro a un giornalista. Il 13 ottobre, durante una conferenza stampa della Commissione europea a Bruxelles, Gabriele Nunziati, corrispondente dell’Agenzia Nova, chiede alla portavoce Paula Pinho: “Se la Russia dovrà pagare per la ricostruzione dell’Ucraina, Israele dovrà fare lo stesso per Gaza?”

Una domanda semplice, diretta, ma anche scomoda. La portavoce, visibilmente in difficoltà, risponde che “non vuole commentare in questo momento”. Il video dello scambio — come spesso accade in questi casi — fa il giro dei social, rilanciato da pagine che denunciano il doppio standard europeo: fermezza contro Mosca, silenzio su Tel Aviv. Pochi giorni dopo, Nunziati viene licenziato.

La sequenza dei fatti

Secondo la ricostruzione pubblicata da Fanpage.it, tra il 15 e il 23 ottobre ci sarebbero state diverse telefonate tra i vertici dell’Agenzia Nova e il giornalista. I toni sarebbero stati accesi, e al centro delle conversazioni proprio quella domanda, giudicata “inopportuna”. Il 27 ottobre arriva la lettera di interruzione del rapporto di collaborazione. Nessuna motivazione esplicita. Solo un taglio netto.

Il giornalista, contattato dalla redazione, conferma: “Dopo la mia domanda ho ricevuto delle telefonate dai miei superiori. I toni erano tesi. Poi è arrivata la lettera.” Poi il silenzio. “Per ora preferisco non aggiungere altro”.

Le reazioni politiche

Il caso non passa inosservato. Dagli eurodeputati del Movimento 5 Stelle arrivano parole di solidarietà e preoccupazione. Gaetano Pedullà parla apertamente di “forme subdole di censura” che minano il giornalismo libero e indipendente. La collega Anna Laura Orrico si dice “sgomenta” e chiede chiarezza: “Se davvero un giornalista è stato licenziato per aver fatto una domanda scomoda, siamo di fronte a un fatto gravissimo per la libertà di stampa in Italia.”

La replica dell’Agenzia Nova

La risposta dell’Agenzia non tarda ad arrivare. In una nota, Nova parla di una ricostruzione “solo parzialmente vera” e spiega che la domanda di Nunziati sarebbe stata “tecnicamente sbagliata”. “La Russia ha invaso un Paese sovrano; Israele, al contrario, ha subito un’aggressione armata. È naturale che la portavoce non abbia risposto: la domanda era fuori luogo e di natura erronea.”

Ma la parte più significativa della replica è un’altra: “Il video è stato rilanciato da canali Telegram nazionalisti russi e media legati all’Islam politico, in funzione anti-europea, creando imbarazzo all’Agenzia.” In altre parole, la colpa del giornalista sarebbe quella di aver messo in difficoltà l’agenzia, alimentando – seppur involontariamente – circuiti di propaganda.

Ma cosa significa “imbarazzo” nel giornalismo?

La parola, qui, è decisiva. “Imbarazzo” è un termine che non appartiene al vocabolario dell’informazione libera. Un giornalista non è al servizio del decoro dell’istituzione, né del comfort del suo datore di lavoro. Il suo dovere è fare domande — anche quando scomode, anche quando imperfette, anche quando spiazzano. Se porre una domanda in una conferenza stampa europea diventa motivo di licenziamento, allora il problema non è più la domanda, ma il sistema che ne teme la risposta.

Un precedente pericoloso

In questa vicenda si intrecciano almeno tre piani di riflessione. Anzitutto, il diritto di porre domande, che è il fondamento del giornalismo, non un privilegio concesso a discrezione. Poi, la dipendenza strutturale delle agenzie di stampa da poteri economici e istituzionali che, più o meno esplicitamente, ne orientano la linea editoriale.
Infine, il clima di timore che si diffonde in redazioni sempre più preoccupate di “non creare problemi” anziché di cercare la verità. Ecco perché la storia di Gabriele Nunziati non è solo quella di un giornalista che perde il lavoro: è il sintomo di un sistema mediatico fragile, in cui il coraggio professionale viene scambiato per ingenuità e la prudenza politica per virtù.

“Fuori luogo”, “scomoda”, “imbarazzante”

Tre parole che, messe insieme, raccontano molto dell’Europa di oggi. Un continente che invoca la libertà di stampa quando deve condannare i regimi autoritari, ma che si irrigidisce quando la stessa libertà osa mettere in discussione i propri alleati. La domanda di Gabriele Nunziati ha toccato corde che molti preferirebbero non sfiorare: ha mostrato, con una schiettezza disarmante, il doppio standard europeo. E la ricostruzione dell’Agenzia Nova, più che chiarire, contribuisce a confondere: basterebbe ascoltare le parole del cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, per capire che la realtà di Gaza è tutt’altro che quella dipinta in certi comunicati.

Il punto, oggi, è un altro: il giornalista non è più libero di fare il suo mestiere. Porre domande o condurre un’inchiesta significa esporsi a campagne diffamatorie, tentativi di delegittimazione, perquisizioni arbitrarie, pedinamenti, intercettazioni, processi penali, licenziamenti.

La libertà di stampa in Europa è divenuta un mantra ripetuto nei documenti ufficiali, ma nella realtà quotidiana è un campo minato governato dalla paura.

M.L.
Silere non possum