Città del Vaticano – Leone XIV parla spesso di unità. Nel suo discorso del 14 maggio 2025 durante il Giubileo delle Chiese Orientali, ha richiamato con vigore l’importanza della legittima varietà liturgica e ha sottolineato come le Chiese orientali «custodiscano tradizioni spirituali e sapienziali uniche» che non vanno annacquate nell’osmosi uniforme, ma valorizzate in una comunione rispettosa. Lì egli riaffermava che la molteplicità dei riti, lungi dall’essere un ostacolo, è «tesoro inestimabile per la Chiesa», da preservare con attenzione e senza riduzioni improprie. Ciò che Leone promuove — e non potrebbe essere altrimenti — è l’unità. Unità, però, significa tutti insieme. E qui cominciano i problemi.

Negli ultimi anni — anzi, nell’ultimo decennio abbondante — la Chiesa sembra aver imboccato una deriva silenziosa ma evidente: quella dei gruppetti. Un’inclinazione che affonda le sue radici ai tempi di san Giovanni Paolo II, quando cominciò a ragionarsi per appartenenza a movimenti, associazioni, comunità carismatiche. Da allora, più che il Popolo di Dio, si sono moltiplicate le tribù ecclesiali. Il dramma, oggi, è che ciascuno vive chiuso nel proprio recinto: e se quei gruppi assomigliano più a sette che a comunità, l’unità diventa una parola vuota, un sogno retorico da convegno. Si favorisce l’uniformità — dentro il proprio gruppo — ma non l’unità con gli altri. Né dentro, né fuori.

Questa riflessione nasce da una celebrazione alla quale abbiamo dovuto partecipare, ahinoi, nei giorni scorsi. Leone XIV aveva accolto l’invito a recarsi alla Domus Australia, per presiedere il Vespro nella chiesa di Santa Maria del Rosario di Pompei.

Entrando, la scena è stata di quelle che parlano da sole: a fare da cerimoniere, Marco Agostini, volto noto negli ambienti più tradizionalisti, dove — come commenta qualcuno nei corridoi del Palazzo Apostolico che qualcuno ama percorrere velocemente 'sgonnellando' e portando visitatori d'eccezione — “ci si addobba come alberi di Natale”. Ora, Agostini è personaggio da romanzo vaticano: lingua lunga e biforcuta, amante di pizzi e broccati, sempre pronto a battersi il petto di giorno e a dimenticare la grammatica cattolica quando deve relazionarsi con i confratelli. Il suo nome evoca più collezioni di merletti che di opere di misericordia. Eppure, eccolo lì, accanto al Papa, a gestire i riti come un attore consumato che recita una parte ormai stantia.

Attorno, un cast d’eccezione: il cardinale Edwin Frederick O’Brien, Gran Maestro emerito dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme; il cardinale Raymond Leo Burke, Patrono emerito del Sovrano Militare Ordine di Malta e il cardinale Willem Jacobus Eijk, arcivescovo metropolita di Utrecht. Un parterre che avrebbe fatto la gioia di qualunque nostalgico dell’antico regime ecclesiastico.

L’altare, nonostante sia stato adeguato alla “terribile riforma liturgica”, era stato disposto coram Deo — nonostante si trattasse di un semplice Vespro e non di una Santa Messa. Una scelta quantomeno inopportuna, tanto più se si considera che la sede del Papa era stata collocata dietro l’altare, accentuando così l’impressione di una messa in scena voluta e ideologicamente orientata.

Una scelta, dunque, che non può dirsi casuale: appare piuttosto voluta, anzi ostinatamente ideologica. Alla celebrazione, inutile dirlo, hanno preso parte solo i soliti noti: cerchie ristrette, fedelissimi, ragazzetti in guanti di cotone bianco. E qui la domanda sorge spontanea: dove vogliamo andare, continuando così? Su questo punto, bisogna riconoscerlo, Francesco — pur con tutti i suoi limiti — mirava a un fine corretto, anche se lo perseguiva con mezzi inadeguati e spesso inefficaci. Ha agito d’istinto, talvolta sbagliando nel metodo, ma non nella sostanza: voleva colpire ambienti segnati da profonde criticità, prima ancora che liturgiche, soprattutto relazionali. Perché non si può parlare di unità se si vive come in piccole sette, se si frequenta solo la Messa “di un certo rito” e si diserta tutto il resto. La celebrazione avrebbe potuto essere presentata - con maggiore onestà - come “il Papa visita una comunità che vive un proprio, particolare modo di intendere la fede”.

Sono proprio questi gli atteggiamenti ai quali si riferiva Leone XIV quando, nell’intervista di luglio concessa a Elise Ann Allen, aveva criticato con parole nette quei pseudo-tradizionalisti che continuano a muoversi dentro un mondo che non esiste più.

Viene allora da chiedersi: quando certi porporati e vescovi salgono in ginocchio e penitenti i gradini del Palazzo Apostolico per chiedere al Papa interventi sulla liturgia, poi vendute ai giornali di una certa destra per far pressione, si domandano mai perché la Chiesa è così polarizzata?

La risposta è semplice — e amara: perché la polarizzazione la promuovono loro stessi. Con lo stesso zelo con cui altri vescovi o pseudo teologi-liturgisti improvvisati diffondono il loro verbo “modernista”.

E torniamo ad Agostini. Sarebbe ora che qualcuno si chiedesse come mai il monsignore amante dei pizzi non sia mai stato allontanato da Francesco, che di questi teatrini non voleva nemmeno sentir pronunciare il nome. Del resto, non dimentichiamolo: gli appassionati della cosiddetta “Trinità Romana” sono spesso gli stessi che si inoltrano compulsivamente video e messaggi pieni di critiche velenose verso i confratelli, che commentano con volgarità e giudizi taglienti, e che — dettaglio tutt’altro che marginale — adottano persino quel linguaggio caricaturalee vomitevole che in bocca a un prete diventa uno scandalo, parlando dei propri confratelli al femminile. Una deriva che fa ridere i mondani e piangere i santi.

E allora la domanda vera è questa: quale tipo di cattolico vogliamo formare? Un credente libero e maturo, capace di riconoscere che ogni rito della Chiesa è valido e che l’essenziale è la fede, o un devoto condizionato, che va “alla Messa di quel rito perché solo quella è valida”? Prima di chiedere di rivedere la Traditionis custodes — che pure resta un obbrobrio liturgico e giuridico — bisognerebbe fermarsi e riflettere. Riflettere su questa malattia settaria che divora la Chiesa dall’interno, trasformando l’unità in appartenenza, la diversità in divisione, la comunione in club privato.

Perché il rischio non è la Messa “antica” o “nuova”. Il rischio è che ogni fedele, ogni prete, ogni vescovo finisca per dire: “noi” contro “loro”. E a quel punto, il Corpo mistico non è più una sola Chiesa, ma un mosaico di sette, ognuna convinta di essere l’unica vera e giusta.

p.G.M. e d.P.S.
Silere non possum