Nell’attuale ecosistema familiare, la tecnologia non è solo uno strumento: diventa un mediatore emotivo, spesso impiegato per colmare un’ansia adulta di contatto. Ma questo uso non nasce da un’intenzione educativa, bensì da un bisogno di autoconferma. Il figlio diventa così il pretesto di una vicinanza permanente che non gli è stata mai chiesta, mentre ciò che manca è l’esperienza elementare della compagnia reale, quella in cui l’adulto sta davanti al mondo accettando il peso della relazione invece di alleggerirsene. Il punto critico non è il dispositivo, ma l’ordine delle priorità: quando il genitore non sa stare davanti alla realtà senza essere immediatamente raggiungibile, il telefono diventa un riempitivo, non un ponte. L’educazione però non è mai un tamponamento, è un lancio di esperienza. Il compito del genitore non è evitare la solitudine, ma mostrare un io in cammino, una posizione davanti alla vita che offra una ipotesi di significato sufficientemente robusta da poter essere verificata dal figlio stesso nel confronto con il reale.
L’adolescente non matura attraverso un adulto che gli elenchi ciò che non può fare, ma incontrando una proposta educativa che si incarna nella relazione e nel reale. Per questo il genitore che consegna subito a un figlio la possibilità del contatto infinito non sta “educando”: sta proteggendosi dalla distanza, confondendo l’educazione con il bisogno di controllo. Dare il cellulare troppo presto, perciò, sposta il figlio dal confronto critico con la realtà al confronto compulsivo con il genitore stesso, trasformando la relazione in vincolo senza romanzo, un rapporto che non porta a diventare sé stessi, ma a non poterne mai fare esperienza autonoma. I rischi attribuiti agli schermi - dipendenza digitale, FOMO, insicurezza dell’immagine corporea, ricerca ossessiva di status via avatar - non nascono anzitutto dalla tecnologia, ma dall’assenza di adulti capaci di restituire un criterio di giudizio che non sia fornito dall’esterno. Se un figlio non riceve dal genitore il metodo per paragonare ciò che incontra con il proprio cuore, userà il metro dominante: quello esterno, sociale, algoritmico, di approvazione, non di verità. Più radicale della distrazione c’è una deriva educativa meno visibile: il genitore, pur desiderando il bene del figlio, fatica a considerare l’educazione come un’esperienza che richiede conflitto, domanda, verifica. Spesso teme la critica perché la scambia con un rifiuto personale: come se il figlio che mette “in questione” qualcosa stesse mettendo in dubbio l’affetto che lo lega al genitore.
In realtà l’educazione nasce proprio dal momento in cui il giovane comincia a fare problema di ciò che ha ricevuto - cioè lo prende, lo guarda, lo paragona con le proprie esigenze interiori - per capire se sia vero, utile, convincente. Il dubbio è la sospensione che arriva dopo aver cercato tutte le ragioni; il problema è invece la scintilla iniziale, il gesto umano con cui si tira fuori un contenuto dal “sacco” delle cose dette e lo si osserva alla luce della propria esperienza. Senza problemi non c’è confronto, senza confronto non c’è costruzione di un io capace di giudicare la realtà. Perciò l’adulto che evita accuratamente ogni attrito o riempie ogni spazio con risposte pronte, non sta difendendo il figlio: gli sta negando proprio il terreno su cui potrebbe crescere una libertà personale, l’unica che non dipende dalle mode, dagli schermi, dall’approvazione esterna.
Quando un genitore consegna la relazione al telefono non perché serva al figlio, ma per evitare il silenzio o la distanza, rinuncia senza accorgersene a ciò che solo un adulto può fare: introdurre alla realtà offrendo una compagnia autorevole e verificabile, non un rifugio immediato dalla mancanza. In questo modo non facilita la maturità critica: la rimanda indefinitamente, o la sostituisce con la dipendenza. L’educazione, invece, comincia quando un adulto osa dire implicitamente con i suoi gesti: guarda il mondo, paragona, domanda, scopri, perché il criterio ultimo della verità non può essere esterno - né un like, né un avatar, né un genitore che non sopporta la distanza - ma nasce dentro l’esperienza viva del ragazzo. Il compito educativo dei genitori non è quindi tamponare l’assenza, ma rendere possibile il paragone con il reale; non evitare il conflitto, ma trasformarlo in un percorso che porti il figlio a scoprire che la realtà stessa ha senso e non è un territorio ostile da cui scappare. È lì che nasce lo slancio critico: non quando si concede un dispositivo, ma quando si accetta il rischio della relazione come evento umano totale - fatto di vicinanza e distacco, parole e carne, proposta e verifica, guida e libertà.
Educare significa proiettare il sacco della tradizione davanti agli occhi del figlio, non lasciarlo sulle sue spalle come un peso non esaminabile. Oggi la tradizione non si comunica dicendo “questa è la regola”, ma mostrando perché vale la pena percorrere un cammino. Senza vissuto presente la tradizione resta un reperto archeologico o un’abitudine sociale; ma dentro un vissuto adulto che dica “io seguo questa strada perché ho verificato che corrisponde al mio bisogno di vero, bello e buono”, il passato diventa provocazione al futuro, punto di fuga non punto di chiusura. La famiglia di un tempo ritualizzava la presenza condivisa perché tutto attorno a essa era lento, stabile, ordinato, lineare. Oggi quel che si è rotto non è il sentimento affettivo, ma la coesione di sguardo: nessuna app educa al contesto, nessuna connessione digitale forma resilienza se non è custodita da un adulto che sappia dire “qui rimanda ad altro, non a me”. Per questo non serve un genitore iper-connesso, ma un genitore generativo, che non abbia paura di delimitare, che non si difenda dal silenzio ma lo usi come territorio educativo dove l’umano emerge.
La mappatura del desiderio dei figli non si ottiene consegnando loro mezzi per “tenerci dentro il dialogo”, ma accettando che il criterio ultimo non sia altrove: il bambino giudica secondo le esigenze del cuore (ciò per cui siamo fatti), non secondo ciò che non contraddice il genitore. L’adulto deve quindi restare cintura di sicurezza affettiva, sì, ma non sostituirsi alla scoperta personale del reale.
La vera questione non è quale piattaforma risolva la distanza, ma se il genitore sappia rimettere al centro ciò che davvero educa: incontro, ragioni, compagnia, critica, destino. Finché la tecnologia risponde al bisogno del genitore invece che a quello del figlio, non diventa mai educazione: diventa servizio, dipendenza, prossimità non filtrata. Non apre mondi, li presidia.
R.V.
Silere non possum