Che cos’è un sacerdote? E perché parlarne oggi, in un tempo in cui la sua figura appare sfuocata, spesso marginalizzata, talvolta compromessa? Non è forse un anacronismo — un relitto di un’antropologia religiosa che il mondo contemporaneo ha ormai oltrepassato? Eppure, a ben guardare, proprio oggi emerge con più forza la necessità di figure che indichino una soglia, un confine, un oltre. Romano Guardini, nel suo testo Lo Spirito della liturgia, ci offre una chiave preziosa per cogliere la bellezza nascosta del sacerdozio.

Guardini non parla direttamente del sacerdote come figura biografica, ma tratteggia una teologia del “segno” liturgico, entro cui il ruolo del sacerdote si dischiude in tutta la sua serietà spirituale.

Il sacerdote come uomo del simbolo

«Il gesto liturgico non è mimica, non rappresentazione, ma azione sacra. In esso l’uomo si pone dinanzi a Dio; egli non “fa come se”, ma “sta” realmente davanti all’Altissimo». (Lo Spirito della liturgia)

Il sacerdote non è un attore. Non “interpreta” un ruolo, non rappresenta qualcosa. È lì. Sta davanti a Dio, e vi introduce anche gli altri. La sua presenza è una presenza seconda: non vive per sé, ma in relazione a. E proprio per questo diventa uno spazio in cui il mistero può accadere.

È ciò che Guardini chiama serietà dell’azione liturgica: una serietà che esige pudore, silenzio, fedeltà alla forma. E qui si apre anche una critica implicita a certe derive contemporanee: la banalizzazione del gesto liturgico svuota anche la figura del sacerdote, rendendolo o un intrattenitore o un burocrate.

L’uomo che si lascia plasmare

«La liturgia richiede un uomo che si lasci formare da essa, che abbandoni sé stesso per ricevere forma da ciò che lo trascende». (Lo Spirito della liturgia)

Il sacerdote non inventa la liturgia, ma si lascia plasmare da essa. Non è il centro, ma il tramite. Non parla a nome proprio, ma presta la voce alla Chiesa, al Cristo. Qui emerge una delle dimensioni più belle e, insieme, più esigenti del sacerdozio: l’obbedienza al rito, la docilità alla Tradizione, l’umiltà di non essere l’origine di ciò che si compie. È in questa docilità che il sacerdote diventa credibile: non per carisma personale, ma per trasparenza spirituale. È bello, se vogliamo usare questa parola, nella misura in cui non si impone, ma si espone.

Il sacerdote è uomo dello spazio sacro

«Lo spazio liturgico è orientato; è carico di direzione. Ogni gesto ha un luogo, ogni parola una risonanza. Nulla è casuale, perché tutto è simbolo. E il sacerdote è colui che si muove dentro questo spazio con coscienza, con misura, con riverenza». (Lo Spirito della liturgia)

C’è una ecologia del gesto sacerdotale: ogni movimento, ogni sguardo, ogni silenzio ha un senso. La liturgia — e dunque l’agire del sacerdote — non è disordinata, non è improvvisata. È tessuta di memoria e promessa. In questa cornice, il sacerdote custodisce un ordine che non gli appartiene, ma che gli è affidato. Non ne è il creatore, ma il custode. Ed è proprio questa custodia — silenziosa, a volte faticosa — a renderlo figura luminosa. Un uomo dello spazio orientato verso Dio, non verso sé stesso.

Non l’utile, ma il necessario

«Il culto non ha uno scopo pratico. La sua utilità è la sua inutilità. È pura risposta, pura offerta, pura gratitudine». (Lo Spirito della liturgia)

Ecco forse la chiave finale. Il sacerdote, come la liturgia, non serve a qualcosa, ma dice che esiste un ambito dell’esistenza che non si misura in termini di efficacia o produttività. Egli è segno dell’inutile necessario: di una bellezza che non produce, ma redime; che non risolve, ma riconcilia.

Il sacerdote è bello, dice in fondo Guardini, perché è l’uomo che offre ciò che non si può misurare: il silenzio, la benedizione, la gratuità. Per questo la sua figura oggi appare così eccentrica. Ma proprio per questo, forse, è ancora più urgente.

La bellezza che non si impone

C’è una scena, nella vita di molti sacerdoti, che rimane nascosta agli occhi del mondo: l’altare preparato con cura, la voce che proclama parole antiche, le mani alzate che benedicono, magari davanti a una chiesa vuota o a una comunità distratta. Ma è lì che si manifesta una bellezza resistente, tenace, irriducibile. La bellezza di chi non si appartiene, e proprio per questo rende presente un Altro.

Come scrive ancora Guardini: «Tutto ciò che è autenticamente sacro è sobrio. La bellezza liturgica non è ornamento, ma verità fatta forma» (Lo Spirito della liturgia).

d.F.C.
Silere non possum