Nel tempo presente, dominato dalla frenesia comunicativa e dalla bulimia informativa, la Chiesa cattolica sembra sempre più preoccupata di rispondere alle sollecitazioni dell’opinione pubblica, come se la sua credibilità dipendesse da una tempestiva dichiarazione piuttosto che dalla coerenza nel tempo della sua testimonianza. È un atteggiamento che tradisce, in fondo, una paura: quella di essere fraintesa, attaccata, strumentalizzata. Ma a ben vedere, ciò che davvero dovrebbe far tremare non sono i titoli di giornale, ma la rinuncia alla verità.
Oggi ogni accusa, ogni sospetto, ogni indiscrezione impone alla Chiesa di fornire spiegazioni, smentite, rassicurazioni. Si è insinuata l’idea – profondamente moderna – che il silenzio equivalga a colpevolezza, o peggio, a complicità. Ma questa è una logica estranea alla tradizione della Chiesa. Come ricordava il cardinale Joseph Ratzinger, “la Chiesa non può prendere forma secondo le aspettative del pubblico o secondo i sondaggi d’opinione, ma solo a partire dal suo Signore”. Eppure, oggi sembra che l’autorità ecclesiale si muova con l’ansia di chi teme più il giudizio della stampa che quello di Dio.

Giustizia o spettacolo?

Quando si tratta di un prete accusato di un reato, il racconto mediatico si affida troppo spesso – e troppo frettolosamente – a ciò che afferma la Procura della Repubblica, come se quell’atto fosse di per sé una verità definitiva. Ma la Procura è, nel procedimento penale, una parte: non è l’arbitro imparziale, non è la voce della verità assoluta. È come se si adottasse come verità il punto di vista della presunta vittima, ignorando che proprio il processo serve a distinguere tra fatti e narrazioni. In una giustizia che si muove per parti contrapposte, ogni atto ha un intento e una strategia. E spesso, purtroppo, anche la Procura – che per vocazione dovrebbe essere al servizio della verità – si lascia trascinare dalla corrente mediatica, sacrificando l’imparzialità sull’altare del consenso. Alcuni procuratori sono più interessati a vedere il loro nome sui giornali, che alla verità. In un mondo dominato dal relativismo e dalla spettacolarizzazione dell’informazione, il sacerdote diventa il colpevole ideale: fa notizia più di un padre di famiglia che abusa della figlia, genera più indignazione, attira più clic. Ma la verità, come ricordava Benedetto XVI, non si piega ai sondaggi né si misura con la forza delle emozioni: va cercata con rigore, pazienza e giustizia. E la Chiesa dovrebbe avere il coraggio di non lasciarsi condurre da questo vento, ma di restare ancorata alla verità, anche quando il mondo urla il contrario.

Tra terapia e ministero

Durante un recente incontro all’interno di una conferenza episcopale regionale, si è discusso dell’importanza della riabilitazione e del reinserimento di alcuni presbiteri nelle comunità parrocchiali. Un tema delicato, giusto ma che richiede prudenza, riservatezza e discernimento. Eppure, alcuni pastori – evidentemente mal consigliati – scelgono di rilasciare interviste pubbliche su questi casi, pensando di doversi giustificare con l’opinione pubblica, affrontando questioni ancora del tutto aperte, quando non addirittura inesistenti dal punto di vista processuale. I processi non sono ancora iniziati, le indagini sono ancora in corso, la verità non è stata accertata, e già si comunica come se si fosse al termine di un percorso definito e risolto.
Dobbiamo giustificarci sul fatto che un prete sia stato reinserito nella comunità dopo un percorso terapeutico? Non sembra che lo Stato si giustifichi quando reinserisce un criminale che ha scontato la sua pena nel mondo, eppure noi dobbiamo farlo in merito a casi che non erano neppure stati accertati con sentenza. Bene, allora se vogliamo farlo, dobbiamo anche rispondere nel merito: chi sono questi terapeuti a cui affidiamo i nostri preti? Sono forse gli psicologi che collezionano dottorati nelle facoltà ecclesiastiche e che, sotto la veste del discernimento, impongono al giovane clero visioni del ministero prive di qualsiasi fondamento concreto, scientifico e spirituale? Oppure quei preti-psicologi che si presentano come maestri di equilibrio e poi non riescono essi stessi a vivere relazioni sane? O ancora, sono coloro che mescolano confusamente psicologia e spiritualità, foro interno e foro esterno, generando preti incapaci di relazionarsi in modo maturo e libero? Sono quegli esperti della formazione che sono davvero convinti che sia sufficiente buttare nel mondo preti che si circondando di persone irrisolte, preti che puntano il dito sugli altri quando in realtà sono tristi, insoddisfatti dentro perché non sono liberi di essere sé stessi?  Un giornalista serio, che non si accontenta della notizia facile né del titolo a effetto, comincerebbe a farsi queste domande. E sarebbero proprio queste domande – più profonde e scomode – ad aiutare davvero la Chiesa, molto più che la corsa al sensazionalismo o alle interviste programmate.  

Come ha ricordato ieri anche l’Arcivescovo di Milano nell’omelia della Messa Crismale, esistono comportamenti che, pur non configurandosi come veri e propri delitti, rappresentano ferite profonde inflitte alle persone. Ferite che, troppo spesso, vengono ignorate. E quel che è peggio, sono ferite inferte da chi avrebbe il compito di testimoniare l’amore di Cristo. Non possiamo dimenticare che, prima dell’abuso fisico, esistono forme più sottili ma non meno gravi di violenza e manipolazione. E allora, forse, è tempo di interrogarci seriamente: quali sono i veri frutti di questi percorsi terapeutici? Chi li guida davvero? E che tipo di uomini e di pastori ne emergono?

Una Chiesa perversa

In un contesto culturale in cui domina il complottismo, in cui la verità non interessa più ma è diventata essa stessa oggetto di sospetto, rispondere ad ogni accusa rischia di diventare un gioco perverso. Non si placa l’attacco, lo si alimenta. Queste interviste daranno titoli di giornali per i prossimi mesi ai quotidiani locali e nazionali. “Il vescovo lo ha rimesso in parrocchia ma sapeva”, “la diocesi dice che lo ha sospeso ma non è vero”, “la Chiesa copre gli abusi”, eccOgni smentita è vista come una conferma indiretta, ogni parola pronunciata viene usata contro chi l’ha detta. “Il potere della stampa è quello di dire una cosa mille volte finché sembra vera” scriveva Hannah Arendt, ed è difficile non vedere in questo meccanismo ciò che oggi intrappola anche la comunicazione ecclesiale.
La Chiesa dovrebbe invece tornare alla sua sapienza antica, che conosceva il valore del silenzio. Non il silenzio della complicità, ma quello della fortezza. Il silenzio che custodisce la verità nella pazienza del tempo, e non nella reazione immediata. Come scriveva Georges Bernanos, “la Chiesa è la sola realtà che sopravvive a tutti i funerali che le hanno fatto”. Perché allora piegarsi all’ossessione del commento? Perché rispondere sempre e comunque, lasciandosi dettare l’agenda dalle logiche del mondo? Bisogna custodire le persone, sia le presunte vittime che gli accusati. Questo può avvenire solo con accoglienza e carità. Quante volte sono state accolte le vittime ed ascoltate seriamente dal vescovo? Quante volte il vescovo ha ascoltato l’accusato senza fargli il terzo grado ma cercando di capire la verità delle cose? Oppure siamo capaci di emettere provvedimenti “cautelari” firmati da personaggi che sono impegnati a contare i proventi dei diritti d’autore dei diari delle “veggenti”? 

Chi scrive, perché lo fa? 

Rispondere alle domande dell’opinione pubblica può essere legittimo, certamente. Ma farlo sempre, come per riflesso automatico, spinti dalla paura di essere etichettati come complici o insabbiatori, è profondamente sbagliato. È il segno di una Chiesa che teme più i titoli dei giornali che la verità. Per rispondere a chi, poi?  
Un esempio possiamo vederlo in quanto sta accadendo oggi nell’arcidiocesi ambrosiana: giornalisti come Francesco Antonio Grana – già noto per aver diffamato numerosi sacerdoti e per le sue discutibili attenzioni verso ragazzettiinvitati nella Sala Stampa della Santa Sede – attaccano l’Arcivescovo Mario Enrico Delpini, accusandolo di inerzia nei confronti di un presbitero sospettato di abusi su minori.
Accuse totalmente infondate, perché qualsiasi diocesi – come qualunque altro ente – può agire solo nel rispetto delle procedure previste, e non in base alle insinuazioni di giornalisti a caccia di visibilità. Ma l’opinione pubblica questo non lo sa. Non sa, ad esempio, chi c’è davvero dietro questi giornalai: personaggi che hanno accusato ingiustamente i propri vescovi di abusi esponendoli ad una gogna mediatica assurda per vedersi poi assolti, ragazzi irrisolti che indossano la talare senza alcun titolo, che hanno scritto e diffuso lettere false con intestazioni della Segreteria di Stato, e che sono stati infine allontanati dal territorio dello Stato della Città del Vaticano – e di tutto questo, molto presto, si parlerà approfonditamente.

Oggi questi individui attaccano l’arcivescovo di Milano semplicemente perché non ha concesso loro spazio. Una scelta saggia, se si considera il loro comportamento pubblico: fotografie ammiccanti negli specchi delle palestre, articoli di diritto canonico pieni di errori pubblicati su siti con redazioni composte da ragazzetti che combinano danni nella Basilica di San Pietro o gente che cerca di farsi dare ministeri nelle diocesi toscane, richieste d’amicizia e tentativi di flirt con preti sui social, millanterie di consulenze a dicasteri e conferenze episcopali e false “referenze” sbandierate in giro per l’Italia. È inquietante pensare che ci si indigni per la prudenza di un vescovo, ma si dia credito a chi, dietro un foglio, proietta le proprie ombre sugli altri.

Il dramma è che la gente crede a ciò che legge, senza mai chiedersi chi scrive, con quale fine lo fa, con quali intenzioni. E soprattutto, senza vedere l’assurdità di un mondo in cui chi ha ben altre colpe si permette di puntare il dito contro chi, semplicemente, ha seguito – con rigore – le indicazioni date dal Papa e dalla Chiesa universale.

La sapienza del Silenzio

La Chiesa deve sapere discernere i tempi, parlare quando è necessario, ma anche tacere quando il clamore è solo rumore. La verità non ha bisogno di essere difesa ogni volta: essa si difende da sé, nella coerenza della vita cristiana, nella trasparenza dei gesti, nella fedeltà alla propria missione. È necessario tutelare le vittime, quando sono tali, il presbiterio, e il Santo Popolo di Dio. 

Troppe volte si ha l’impressione che oggi nella Chiesa ci sia più paura dei giornali che della menzogna. Più timore di ciò che si scrive, che di ciò che si è. È questo l’errore da correggere. Non sarà un titolo di prima pagina a salvare o distruggere la Chiesa, ma la sua capacità di restare fedele a Cristo, anche quando il mondo la accusa. Riflettiamo su questo, in modo particolare oggi in cui contempliamo il Signore Gesù, condannato e crocefisso seppur innocente. La Chiesa non ha bisogno dell’applauso del mondo, ma della verità che salva. E questa verità, a volte, parla più forte quando tace.


F.P. e d.L.V.
Silere non possum