Sabato 9 marzo 2024 S.E.R. il Sig. Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato, ha presieduto l'ordinazione episcopale di Mons. Vincenzo Turturro. Alla cerimonia hanno preso parte molti vescovi e diversi sacerdoti provenienti anche dalla diocesi di Molfetta - Ruvo di Puglia - Giovinazzo - Terlizzi, chiesa che ha dato i natali al neo vescovo. 

Il Segretario di Stato nella sua omelia si è concentrato sul salmo responsoriale e sul significato del vincastro: «Ora se il bastone richiama la protezione del buon pastore contro gli ostacoli che impediscono il cammino del gregge l’immagine del incastro aggiunge qualcosa di decisivo. Esso dalla forma simile a quella di un bastone è tuttavia un ramo più tenero attraverso il quale il pastore stimolava delicatamente le pecore. Fuor di metafora Cristo buon pastore oltre a proteggerci con il suo vincastro ci stimola dolcemente a metterci in cammino aprendoci a scenari inattesi e sorprendenti accomunati da un dilatamento degli orizzonti dell’amore. Invita i suoi ad abbracciare il cuore dell’esistenza facendo del proprio cuore un dono sempre più grande e questa è la chiamata che ti ha raggiunto caro monsignor Vincenzo e che ti invia ora ad essere rappresentante del Papa in Paraguay». E sul vangelo: «È evidente l’insistenza sul verbo rimanere qui presente tre volte e che dall’inizio del capitolo quindicesimo del Vangelo di Giovanni nel quale ci troviamo fino a questo punto torna ben dieci volte in dieci versetti. Perché tanta ripetitività? Cosa si cela dietro il verbo rimanere? Nel Vangelo che reca il nome di colui che nell’ultima cena posò il capo sul petto di Cristo esso si rivela come il verbo chiave del discepolo. Non si tratta infatti solo di porre il Signore quale principio delle decisioni, si tratta di un’esperienza ancora più concreta. Nel quarto Vangelo, infatti, il verbo rimanere viene impiegato anzitutto per descrivere l’indimenticabile primo incontro dei discepoli che vanno a casa di Gesù vedono dove dimora e rimangono con lui, lì dove abita seguendo da quel giorno i suoi passi. Rimanere dunque significa intimità». 



Omelia di S.E.R. il Sig. Cardinale Pietro Parolin

Santo Padre,

Signori cardinali,

Fratelli nell’episcopato e nel presbiterato,

Ambasciatori, distinte autorità,

Cari familiari amici e concittadini di monsignor Turturro,

Caro monsignor Vincenzo,

Sorelle e fratelli nel Signore,

qui radunati, come ci ha ricordato la prima lettura, in un sol corpo e un solo spirito per l’ordinazione episcopale di monsignor Vincenzo Turturro ci anima la certezza che il Signore è il nostro pastore ed è con noi, come abbiamo cantato nel salmo responsoriale e che tu, caro Don Vincenzo hai voluto raccogliere nel tuo motto episcopale “Quoniam tu mecum es” (Perché tu sei con me). È questa la certezza insopprimibile nella vita di chi crede che in ogni situazione, circostanza e persino solitudine siamo tenuti a non temere alcun male perché il Dio della comunione che in Cristo ha battuto ogni separazione ci è vicino e la sua vicinanza è più grande di ogni distanza dalle nostre attese. Perché tu sei con me, il versetto del salmo prosegue così: il tuo bastone e il tuo incastro mi danno sicurezza. Ora se il bastone richiama la protezione del buon pastore contro gli ostacoli che impediscono il cammino del gregge l’immagine del incastro aggiunge qualcosa di decisivo. Esso dalla forma simile a quella di un bastone è tuttavia un ramo più tenero attraverso il quale il pastore stimolava delicatamente le pecore. Fuor di metafora Cristo buon pastore oltre a proteggerci con il suo vincastro ci stimola dolcemente a metterci in cammino aprendoci a scenari inattesi e sorprendenti accomunati da un dilatamento degli orizzonti dell’amore. Invita i suoi ad abbracciare il cuore dell’esistenza facendo del proprio cuore un dono sempre più grande e questa è la chiamata che ti ha raggiunto caro monsignor Vincenzo e che ti invia ora ad essere rappresentante del Papa in Paraguay. Il vincastro, per tornare a questa immagine, aveva un’estremità ricurva la quale permetteva al pastore, per così dire, di agganciare le pecore, per avvicinarle a sé. È indicativo che proprio dal vincastro tragga origine il ricciolo presente nel pastorale del vescovo a simboleggiarne la sollecitudine nei riguardi del gregge che è chiamato a servire. Per farlo in modo adeguato il vincastro ricorda il vescovo l’imprescindibile vicinanza con il buon pastore. È questo il segreto per affrontare le sfide del ministero di successore degli apostoli di fronte alle quali non è solo legittimo ma è doveroso sentirsi impreparati. E a proposito della stretta vicinanza con Gesù ci aiuta il Vangelo scelto per oggi in esso il primo invito di Cristo suona così: «Rimanete nel mio amore se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore come io ho osservate i comandamenti del Padre mio e rimango nel Suo amore». È evidente l’insistenza sul verbo rimanere qui presente tre volte e che dall’inizio del capitolo quindicesimo del Vangelo di Giovanni nel quale ci troviamo fino a questo punto torna ben dieci volte in dieci versetti. Perché tanta ripetitività? Cosa si cela dietro il verbo rimanere? Nel Vangelo che reca il nome di colui che nell’ultima cena posò il capo sul petto di Cristo esso si rivela come il verbo chiave del discepolo. Non si tratta infatti solo di porre il Signore quale principio delle decisioni, si tratta di un’esperienza ancora più concreta. Nel quarto Vangelo, infatti, il verbo rimanere viene impiegato anzitutto per descrivere l’indimenticabile primo incontro dei discepoli che vanno a casa di Gesù vedono dove dimora e rimangono con lui, lì dove abita seguendo da quel giorno i suoi passi. Rimanere dunque significa intimità. Intimità nei riguardi di colui che ha posto la sua tenda in mezzo a noi. E nel Vangelo odierno al momento delle parole di addio ai discepoli dopo l’ultima cena il Signore esplicita l’essenzialità del rimanere in lui con le parole citate. Dopo aver consegnato la sua ultima immagine quella del tralcio che non posso sopravvivere se non rimane innestato nella vite. Rimanere in Gesù dunque è mantenersi innestati in lui condividendo la linfa del medesimo spirito e non è un’esortazione pietistica ma è un’adesione vitale al mistero trinitario tanto che Gesù utilizza lo stesso verbo per designare il rapporto tra noi e lui e quello tra lui e il padre che sono una cosa sola. Dunque, come non esiste un’intimità più alta di quella tra il padre e il figlio in Dio, così nel mondo non dovrebbe essercene una più stretta di quella tra il discepolo e Gesù. Rimanere in lui significa frequentarlo e portargli i pensieri e i sentimenti, il lavoro e i colleghi di lavoro, le speranze, le angosce, le miserie e le fragilità gettando in lui ogni nostro affanno. Spesso invece tendiamo a rimanere più che nel Signore in noi stessi. Siamo tentati di abitare da soli i problemi e le situazioni più difficili parlando di molti aspetti faticosi e delicati con varie persone e scordandoci di confidarli a Lui nell’intimità della preghiera. Stando al Vangelo, è questa mancanza di rimanere una delle principali cause per le quali Dio non può compiere in noi e attraverso di noi le grandi cose che vorrebbe compiere.

Caro monsignor Vincenzo, è proprio il desiderio di affidarti al Signore che ti sostiene in questo momento rimanendo in Gesù hai potuto accogliere il suo invito ad andare. Egli stesso dice, a conclusione del Vangelo odierno, vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga. Rimanendo in Lui si viene spinti ad andare e sarà così anche per te in quanto Nunzio Apostolico. Nunzio significa messaggero ma ogni messaggio che porti è connotato dall’aggettivo Apostolico. Non è quindi anzitutto questione di cose da fare o da non fare, da dire o da non dire, ma di apostolato da vivere, di vita da spendere per la Chiesa e per il Paese in cui ti troverai. In essi non sarai mai straniero, non solo per la cospicua presenza di cattolici ma soprattutto perché quel popolo, come ogni popolo, è abitato e amato da Dio che ad esso ti manda in quanto l’apostolo per definizione è proprio colui che è mandato. Lo farai certamente nel tuo stile entrando in punta di piedi in una realtà che sai precederti ed eccederti. Lo farai con l’entusiasmo che caratterizza la tua età e al contempo con l’esperienza maturata al servizio della Santa Sede. Lo farai e so che ci tieni particolarmente a questo aspetto facendo tesoro della storia di grazia che il Signore ti ha donato, delle radici che affondano nella tua cara famiglia e nella tua comunità diocesana di Molfetta Ruvo Giovinazzo e Terlizzi che oggi ti stringono in un forte abbraccio. La provvidenza ha voluto che tu venga ordinato nel giorno della nascita del Vescovo che ti ordinò sacerdote al quale vi lega anche il salmo dal quale hanno preso avvio queste riflessioni ed è bello che vegli su di te dal cielo il vescovo che ha accompagnato i passi della tua vocazione e dei tuoi primi anni di Seminario. Quel venerabile pastore chiamava farsi che amava farsi chiamare semplicemente Don Tonino. Vorrei perciò infine lasciare la parola a lui, riprendendo quanto detto attraverso tre suoi brevi spunti plastici e poetici riguardanti il tempo, il vestiario e il luogo della tua ordinazione. Il tempo in cui vieni ordinato è quello che precede la Pasqua. Don Tonino Bello amava vederlo come un cammino che conducendo il cuore al culmine della vita cristiana interpella la totalità della persona un cammino disse che va dalla testa ai piedi. La Quaresima si incastona, infatti, tra l’imposizione delle ceneri sulla testa e la lavanda dei piedi del Giovedì Santo. Dalla testa ai piedi per abbracciare tutto il nostro essere superando ogni distanza con il Signore e sentendoci chiamate un’intimità totale con lui.

La lavanda dei piedi ci porta il secondo spunto: il vestiario. Quando i discepoli udirono le parole che abbiamo ascoltato oggi nel Vangelo avevano negli occhi proprio l’immagine del Maestro che si era appena fatto loro servo in quel modo scandaloso. Don Tonino amava ancorare l’essenza del ministro sacro a questo gesto inaudito e pensando al clima in cui era scaturito il dono del sacerdozio coniò l’espressione: chiesa del grembiule cioè chiesa del servizio. Notava poi argutamente come tra i tanti regali che adornano i vestiari degli ordinanti manchi spesso il grembiule, unico paramento sacerdotale ricordato nel Vangelo. Manca tuttavia perché non si smette mai perché è da indossare abitualmente e non togliere. Sull’esempio di Gesù che si alzò e riprese le vesti ma non depose l’asciugatoio. Questo ardore di servire sia, monsignor Vincenzo, l’anima del tuo ministero. E da ultimo uno spunto sul luogo. Vieni consacrato nella Basilica Papale di San Pietro e ciò richiamo un episodio caratteristico avvenuto quando il santuario diocesano della Madonna dei martiri di Molfetta venne elevato a basilica minore. La sera precedente, alla presenza di un cardinale, di autorità religiosa e civile e militari di migliaia di fedeli, ci fu una veglia e in quell’assemblea si levò la domanda di un giovane, il quale lieto per l’elevazione a basilica chiese ad alta voce al vescovo perché tuttavia si trattasse solo di una basilica minore. Don Tonino non aveva in mente la distinzione tra quelle maggiori, le basiliche romane e le altre basiliche minori sparse nel mondo e improvvisò con un lampo di genio evangelico. Si avvicinò alla parete del tempio, la battè con la mano e disse basilica minore è quella fatta di pietre, basilica maggiore è quella fatta di carne, l’uomo insomma. Basilica maggiore sono io, sei tu. Caro monsignor Vincenzo, in questa basilica lo Spirito Santo sta per scendere su di te e ti colmi della Sua grazia e ti renda lieto e lieve servire le sorelle i fratelli affidati alla tua cura pastorale perché sono le basiliche dove dimora il tuo e il nostro Signore. E così sia.

Pietro Card. Parolin