«La pace di Gesù risorto è disarmata, perché disarmata fu la sua lotta, entro precise circostanze storiche, politiche, sociali. Di questa novità i cristiani devono farsi, insieme, profeticamente testimoni, memori delle tragedie di cui troppe volte si sono resi complici. La grande parabola del giudizio universale invita tutti i cristiani ad agire con misericordia in questa consapevolezza. E nel farlo, essi troveranno al loro fianco fratelli e sorelle che, per vie diverse, hanno saputo ascoltare il dolore altrui e si sono interiormente liberati dall’inganno della violenza», ha scritto Leone XIV nel Messaggio per la Giornata della Pace 2026. «Questa è la pace del Cristo Risorto, una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante. Proviene da Dio, Dio che ci ama tutti incondizionatamente», aveva detto nella prima benedizione Urbi et Orbi, appena eletto. «Il contrario del dialogo non è il silenzio, ma l’offesa… una guerra di parole», ha ricordato nei giorni scorsi ai diplomatici.

Parole nette, persino spietatamente lineari. E non sono slogan: delineano, fin dall’inizio, un tracciato che Leone XIV sta perseguendo anzitutto dentro la Chiesa. Il Papa - lo ha confidato anche ai suoi collaboratori più fidati - è persuaso che, prima di convocare il mondo alla pace, la Chiesa debba riconquistare la propria pace interna. Non si tratta di una strategia di governo: è una questione di credibilità.

Negli ultimi anni, infatti, le posizioni estremistiche si sono inasprite su entrambi i fronti, fino a rendere l’aria ecclesiale pesante, talvolta irrespirabile. E qui la diagnosi del Papa è difficilmente contestabile: questa polarizzazione ha prodotto un clima insopportabile, un conflitto permanente travestito da zelo, una militanza identitaria scambiata per fede. Da qui la scelta di un linguaggio sobrio: poche parole, misurate, mai urlate. Non per paura, ma per convinzione: la testimonianza, quando è autentica, pesa più dei proclami. Ma proprio la testimonianza esige una condizione preliminare: deve essere credibile. E la credibilità, in questi anni, è stata logorata dall’esibizione delle fazioni, dalla retorica dei “puri” e dalla caccia al nemico di turno. Lo si è visto anche nelle ultime settimane: pseudo-teologi aggressivi, pronti ad attaccare e a diffamare chiunque non si allinei alle loro tesi, come se l’innovazione teologica si misurasse a colpi di insinuazioni contro quelli che identificano come nemici. E, parallelamente, proliferano “psico-blog” che trasformano la fede in una guerra contro i fratelli: non un cammino di conversione, ma un ring; non un discernimento, ma un tribunale permanente.

Leone XIV e il governo della Chiesa Universale

Ma queste parole sono anche una chiave di lettura efficace per interpretare le decisioni maturate in questi mesi da Leone XIV. Tra tutte, la nomina resa nota oggi: non è soltanto l’avvicendamento alla guida di una grande diocesi statunitense, ma un segnale del suo stile di governo. Un atto coerente con una traiettoria nitida: disarmare i linguaggi, raffreddare le tensioni interne, recidere la logica delle fazioni e riportare il confronto ecclesiale sul terreno dell’unità e della credibilità. La Santa Sede ha reso noto che il Papa ha accettato la rinuncia del cardinale Timothy M. Dolan al governo pastorale dell’Arcidiocesi Metropolitana di New York e ha nominato Arcivescovo Metropolita S.E.R. Mons. Ronald A. Hicks, trasferendolo dalla Diocesi di Joliet (Illinois).

Il profilo del nuovo arcivescovo è quello di un pastore cresciuto nel tessuto ecclesiale di Chicago, con una formazione solida e un’esperienza di governo non improvvisata: nato nel 1967, studi in filosofia alla Loyola University, formazione teologica alla University of Saint Mary of the Lake / Mundelein Seminary, un passaggio significativo nell’opera caritativa Nuestros Pequeños Hermanos tra Messico ed El Salvador, quindi incarichi nella formazione e, soprattutto, un lungo percorso di responsabilità fino al ruolo di Vicario Generale. Successivamente, la nomina a vescovo ausiliare (2018) e poi a vescovo di Joliet (2020).

Questa nomina va letta in parallelo con un’altra scelta che incide direttamente sul governo della Chiesa universale: la designazione di Mons. Filippo Iannone, O. Carm., come Prefetto del Dicastero per i Vescovi e Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, provenendo dal Dicastero per i Testi Legislativi (incarico assunto dal 15 ottobre 2025). 

Un cambio di priorità

Due scelte diverse - una grande sede metropolitana, un nodo della Curia - eppure un criterio comune: individuare figure che non entrano in scena come bandiere. E non è un particolare trascurabile, se si considera che negli anni scorsi si è spesso preferito promuovere uomini “amici degli amici”, provenienti da ambienti contigui all’ideologia di chi governava, profili costruiti per risultare “simpatici” al Papa di turno, con un curriculum calibrato su ciò che lo avrebbe maggiormente affascinato.

Così abbiamo assistito a una liturgia stanca e ripetitiva: incarichi pastorali esibiti come timbri di autenticità - per qualche mese parroci, per qualche mese direttori della Caritas, per qualche mese cappellani del carcere. Pochi mesi, talvolta perfino poche settimane, giusto il tempo di confezionare un profilo presentabile e poter dire, con aria compunta: «è un uomo con l’odore delle pecore». Il risultato? Una recita permanente, una messa in scena che sostituisce il discernimento con la narrazione, e la competenza con l’abilità di indossare, al momento opportuno, l’abito giusto. I risultati si sono visti e li stanno pagando i parroci, quelli veri, i quali hanno alla guida delle diocesi dei vescovi adolescenti che giocano a mettere zizzania fra l’uno e l’altro prete.

I tempi, però, sono cambiati e Prevost non vuole finti adulatori ma uomini di comunione. Il Papa nei suoi interventi di questi mesi ha insistito più volte sul bisogno di rompere le logiche della divisione e della polarizzazione, chiedendo “agenti di comunione” capaci di ricucire ciò che separa. E quando ha pregato e predicato, ha tradotto lo stesso obiettivo in un lessico netto: non “dividere il mondo in fazioni irriconciliabili”, non lasciare che l’odio e la menzogna dettino memoria e appartenenze, perché “dentro la Chiesa… non possiamo essere divisi”.

Ed è bene scardinare una tentazione ricorrente: scambiare la mancanza di etichetta per assenza di linea. Non esiste neutralità “vuota”. Ogni nomina dice una direzione. La direzione che emerge non è “tradizionalista” o “progressista”, ma più radicale: la comunione come priorità di governo. Recentemente il Papa ha persino invocato di “spegnere i focolai delle fazioni” e “ricomporre le reciproche contese”, ricordando che il discernimento ecclesiale non è l’affermazione di un punto di vista “personale o di gruppo”.

New York, in questo quadro, non è solo una diocesi importante per il peso mediatico e culturale degli Stati Uniti: è un laboratorio permanente di pluralità, conflitti, linguaggi. E il Dicastero per i Vescovi, con Iannone, è il luogo in cui quella stessa logica di “disarmo” può diventare criterio stabile di selezione: meno pastori-capo-corrente, più pastori in grado di governare senza alimentare la guerra civile ecclesiale. Leone XIV chiede di “disarmare proclami e discorsi” e di scegliere parole “che costruiscono intesa”, e allo stesso tempo mette in punti strategici persone che, per biografia e stile, possono abbassare la conflittualità e rendere possibile un lavoro paziente di ricomposizione. Non vuole evitare i problemi, ma vuole impedire che la Chiesa si consumi nel commentarli come tifoseria, mentre fuori - e dentro - cresce la sete di pace, di guarigione, di credibilità.

Marco Felipe Perfetti
Silere non possum