In un’epoca che idolatra la velocità e misura il valore delle relazioni in base all’algoritmo, parlare di amicizia suona quasi anacronistico. Eppure, già Aristotele — che certo non viveva sotto la pressione delle notifiche — intuiva che il legame più umano, e insieme più fragile, fosse proprio l’amicizia. Nell’Etica Nicomachea, dedica a questo tema non un paragrafo accessorio, ma due interi libri. Come a dire: non si può comprendere la vita buona se non si comprende con chi e per chi si vive.

La trattazione dell’etica non si accontenta della virtù astratta: ha bisogno di incarnarsi in legami, volti, relazioni. È solo attraverso l’altro — e con l’altro — che il bene può veramente fiorire. “Nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se avesse tutti gli altri beni” (EN, VIII, 1, 1155a). È una frase tanto lapidaria quanto scomoda per chi, oggi, concepisce la vita buona come somma di risultati, piaceri o conquiste. Aristotele, invece, scava nel terreno più umano: l’amicizia non è un lusso, ma una necessità dell’anima razionale e politica.

Tre tipi di amicizia, una sola che resta

Il filosofo distingue tre forme di amicizia: quella fondata sull’utilità, quella sul piacere, e infine quella che si regge sulla virtù. Le prime due, pur legittime, sono per loro natura instabili, legate a ciò che muta: il bisogno e il desiderio. Solo l’amicizia virtuosa è durevole, perché nasce da un bene condiviso: “Amico è colui che vuole il bene dell’altro per l’altro” (EN, VIII, 3). È questa la forma più alta dell’amicizia: un camminare insieme verso ciò che è giusto e buono, un reciproco riconoscimento nella tensione verso il bene.

Amicizia e vocazione sacerdotale

Se l’amicizia è condizione per vivere bene, quanto più lo sarà per chi è chiamato a servire la vita degli altri, a essere, direbbero i padri, “pastor animarum”?  Il rischio più grave per un sacerdote non è soltanto la solitudine — pur reale e diffusa — ma la confusione dei piani relazionali. Spesso si scambia la collaborazione pastorale per amicizia, la stima professionale per legame personale, l’intesa ministeriale per affetto vero. Ma non è la stessa cosa. L’amicizia autentica, gratuita e disinteressata, si muove su un altro registro: quello della libertà e della reciprocità, non della funzione e dell’utilità. La formazione odierna, del resto, è spesso carente proprio su ciò che conta di più: l’educazione affettiva, la maturità relazionale, la capacità di abitare legami profondi senza possederli. Per questo, non di rado, ci si accontenta di rapporti superficiali, di legami comodi ma inconsistenti, oppure si cade nella ricerca di soddisfazioni facili e passeggere, che con l’amicizia non hanno nulla a che fare. Ma nessun prete può reggere a lungo senza il sostegno di relazioni vere, libere, disinteressate. Non tanto quelle che orbitano attorno al ruolo, ma quelle che riconoscono l’uomo, l’amico, prima del ministro.

Il prete ha bisogno di amici, non solo di collaboratori. Di persone che non si fermano all’abito, ma sanno guardare oltre. Che sanno correggerlo con franchezza e consolarlo senza pietismo. Che non gli chiedono nulla, ma lo sostengono in tutto. L’amico, in questo senso, è custode di umanità. E se il sacerdote è chiamato a essere immagine di Cristo, non potrà esserlo senza vivere in quella rete di affetti sinceri che lo ancorano al reale, e lo aiutano a non smarrirsi nel mestiere del sacro.

“Vi ho chiamati amici”

Gesù, nel Vangelo di Giovanni, dice una delle frasi più vertiginose di tutto il Nuovo Testamento: “Non vi chiamo più servi, ma amici” (Gv 15,15). È una dichiarazione che cambia tutto: non si tratta di obbedire per timore, ma di partecipare per amore. L’amicizia, per Gesù, non è un orpello sentimentale, ma la forma della rivelazione: “Tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi”.

Con queste parole, Cristo non solo svela il cuore del suo rapporto con i discepoli, ma indica anche la via per ogni autentica relazione umana. Non c’è gerarchia che tenga, non c’è funzione che basti: è l’amicizia che salva, che redime, che accompagna. È anche l’unica via per educare davvero. Non si guida un’anima se non la si ama. E non si ama nessuno se non si accetta di essere vulnerabili, ossia amici. In un tempo in cui tutto viene convertito in prestazione, il richiamo aristotelico e quello evangelico risuonano come provocazioni necessarie. L’amicizia vera non serve a qualcosa, ma serve qualcuno. E ogni sacerdote, come ogni uomo, non potrà dire di aver vissuto bene, se non avrà avuto almeno un amico al quale dire, con verità: “Eri con me, anche quando non avevo parole”.

p.A.T.
Silere non possum