Non c’è pubblicità che la racconti, né carriera che la contempli. Eppure, da secoli, uomini e donne continuano a varcare la soglia di un chiostro per scegliere una vita che il mondo definirebbe inutile. Ma è proprio lì, dove nulla serve a “qualcosa”, che tutto torna ad avere senso.
Nel ritmo delle campane, nel lavoro ripetuto, nella preghiera che scandisce le ore, si nasconde una rivoluzione silenziosa: quella di chi crede che la vita valga per sé stessa, non per ciò che produce.
La vita monastica non è fuga, ma radicamento. È l’arte di restare, di non fuggire da sé per cercare altrove ciò che si trova solo nel profondo. È una vita che si fa comunione, non per teoria ma per necessità: perché soltanto insieme si impara a portare la propria fragilità senza vergogna, a lasciarsi purificare dallo sguardo dell’altro, a essere perdonati e a perdonare.
Madre Anna Maria Cànopi, nelle sue memorie, lo racconta con un candore disarmante: «Quando bussai alla porta del monastero, mi chiesero: “Ad quid venisti?” e risposi: “Ad immolandum veni”». Non per morire, ma per rinascere: per imparare a “perdere la vita” e così trovarla. La sua scelta non fu una fuga dal mondo, ma un’offerta. Scrive: “Sapevo e volevo che la mia vita fosse, momento per momento, immolata insieme con quella del Signore Gesù crocifisso per amore.”
Nel monastero la libertà non ha il volto dell’indipendenza, ma dell’appartenenza. È libertà da sé per Dio, e per i fratelli. L’obbedienza non è servilismo, ma una forma di amore intelligente: la capacità di lasciarsi condurre, di ascoltare, di non essere sempre la propria misura. Per Cànopi, l’obbedienza fu la via della vera creatività: non il soffocamento della personalità, ma la sua fioritura nella docilità. «Entrai come una piccola discepola - scrive - e dovetti deporre tutto il mio fardello: competenze, esperienze, desideri. Ma fu una liberazione. Era Dio che prendeva il timone della mia vita.»
Ogni giorno, il monaco ricomincia con gesti che non mutano mai a dire “sì”. E in quel “sì” che si consuma nel quotidiano, fiorisce una gioia che il mondo non sa più nominare. Il segreto di questa vita è semplice e disarmante: Dio basta. Non come rifugio, ma come pienezza. Tutto il resto diventa superfluo non per disprezzo, ma per sovrabbondanza.
Quando Cànopi arrivò con cinque sorelle sull’isola di San Giulio, nel 1973, la trovò spoglia e silenziosa, “come Gerusalemme dopo la tempesta”. Ma scrisse: “Non mancava nulla, perché avevamo l’essenziale: la presenza di Dio e l’amore fraterno.”
Quella piccola comunità, che pregava fra muri scrostati e finestre rotte, divenne presto un cuore pulsante nel seno della Chiesa. Dall’isola si levava il canto delle monache, e molti - laici, sacerdoti, pellegrini - vi trovarono una casa. «Finché esiste un monastero – le aveva detto il vescovo Del Monte - restano mani levate verso il cielo, e la speranza non muore.»
Nel chiostro, anche le cose più semplici diventano liturgia: il cucire, il lavare, il pregare. È la “scuola del servizio divino”, dove ogni gesto ha il sapore dell’eterno. E così il lavoro - che nel mondo è fatica - qui diventa canto: «Non c’è ozio - scrive Cànopi - ma neppure affanno. L’ora et labora è l’armonia dell’essere umano riconciliato.»
A chi cerca senso, direzione, verità - non un’emozione passeggera ma una casa - il monastero parla senza parole. Dice che si può vivere in un altro modo: nudi e lieti, come chi ha trovato il tesoro e lascia tutto per custodirlo. E allora si capisce che non è una vita facile. È una vita vera.
È la vita di chi, come scriveva Madre Cànopi nella Pasqua del 2011, “rende grazie al Signore che fin dal seno materno mi ha sorretta, fin dalla nascita mi ha portata e fino alla vecchiaia continua a portarmi.” Una vita portata da Dio, per amare.
s.L.A.
Silere non possum