Milano - Nella storia della Chiesa ambrosiana sono sorte numerose famiglie religiose e forme di vita variegate che hanno donato molto alla Chiesa e sono divenute, nel corso dei secoli, luoghi di santificazione per figure straordinarie. Tra queste spiccavano certamente i Fratelli Oblati Diocesani, nati nel solco del carisma di San Carlo Borromeo e rinnovati nel XX secolo dal Beato Alfredo Ildefonso Schuster, monaco benedettino e arcivescovo di Milano.
Già nel 1581, San Carlo aveva intuito la necessità di costituire un gruppo di laici consacrati che potessero affiancare i sacerdoti nell’opera pastorale e nelle esigenze della vita diocesana. Non religiosi, non chierici, ma uomini che - pur restando laici - si donassero interamente a Dio per servire la Chiesa ambrosiana con spirito di obbedienza, castità e povertà. Fu Schuster, nel 1930, a raccogliere e dare nuova forma a quell’intuizione, collocandola all’interno della Congregazione degli Oblati dei Santi Ambrogio e Carlo, di cui i Fratelli costituirono poi una famiglia autonoma, pur rimanendo uniti da un medesimo vincolo di obbedienza all’Arcivescovo di Milano.
Una vocazione laicale, ma consacrata
I Fratelli Oblati nacquero come una realtà formata da uomini che non aspiravano agli ordini sacri, ma avevano chiaro quale fosse il loro servizio: laici consacrati che vivevano nel mondo, spesso impegnati professionalmente, ma con il cuore radicato nella spiritualità dell’oblazione - offrire tutto sé stessi a Cristo per la Chiesa di Dio che è a Milano. Chiamati a vivere il celibato per il Regno, professavano i consigli evangelici mediante i voti e si ponevano in piena disponibilità all’Arcivescovo, al quale promettevano obbedienza totale. La loro vita comunitaria si fondava sulla fraternità, sulla preghiera e sul servizio. Partecipavano alla missione della Chiesa ambrosiana non come operatori pastorali salariati, ma come uomini interamente donati: testimoni di una forma di consacrazione che univa il mondo secolare all’orizzonte della vita evangelica.
Una comunità al servizio della Diocesi
Il loro Statuto, approvato con Decreto Arcivescovile del 3 aprile 2017 dal cardinale Angelo Scola, definisce l’Associazione come una pubblica associazione di fedeli di diritto diocesano. La guida è affidata a un Superiore responsabile, scelto dall’Arcivescovo tra i sacerdoti oblati e nominato per un mandato di sei anni, affiancato da un Consiglio che ne accompagna la vita comunitaria e formativa. Tuttavia, ciò che fu nell’intuizione di San Carlo Borromeo e del Beato Ildefonso Schuster appare oggi profondamente diverso da ciò che questa realtà è diventata. Numerosi sacerdoti milanesi e diversi laici, che conoscono da vicino l’ambiente, hanno scritto a Silere non possum denunciando un clima e un sistema ben lontani dagli statuti e dallo spirito originario dei fondatori, che avevano immaginato una fraternità realmente a servizio della Chiesa ambrosiana.
«Oggi, però, è diventato un refugium peccatorum. Vi sono confluiti diversi soggetti che avevano ricevuto un netto diniego a Venegono, e ora sono proprio loro a trascorrere il tempo criticando altri sacerdoti, perfino l’Arcivescovo. Li si vede spesso sui social a diffondere rancore e disprezzo verso il Papa, verso confratelli o semplici laici», racconta a Silere non possum un sacerdote della diocesi. Un modus agendi di cui Silere non possum ha raccolto diverse testimonianze e prove concrete, che mostrano un uso immaturo dei social network e una gestione dell’affettività tutt’altro che equilibrata.
«Con la nomina di mons. Giuseppe Scotti, le cose peggioreranno sensibilmente» - afferma un monsignore - «si tratta di una figura ben conosciuta, e noto è anche il motivo per cui non si trova più a Roma. Oggi ricopre il ruolo di segretario della Conferenza Episcopale Lombarda, ma con evidenti criticità. Porta più confusione che ordine. È sufficiente leggere i verbali della CEL o le e-mail che invia, dove si riscontrano errori persino di sintassi. Come avete già segnalato voi, restano poi poco chiari i legami di questo presbitero ambrosiano con alcuni personaggi controversi, che scrivono e parlano contro l’arcivescovo Mario, salvo poi ritrovarsi a svolgere servizio in Duomo.»
Un presbitero conferma che, nella stessa parrocchia in cui risiede monsignor Giuseppe Scotti, abita anche il giovane di cui Silere non possum si è già occupato. Costui continua a parlare contro l’Arcivescovo, indossa la talare pur non essendo chierico ed è noto negli ambienti romani per aver falsificato lettere della Segreteria di Stato e per aver spinto un giovane a denunciare il vescovo di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo per abusi - accuse mai dimostrate e successivamente addirittura archiviate dalla procura della Repubblica. La domanda è: per quale motivo un laico con questo trascorso dovrebbe vivere in una casa di una parrocchia nel pieno centro di Milano?

Nonostante ciò, monsignor Scotti ha presentato a Milano un libro di questo giovane, arrivando perfino a leggere una lettera di saluto da parte della Segreteria di Stato - la stessa istituzione le cui firme il giovane aveva falsificato. Il cardinale Pietro Parolin, come prevedibile, ha ancora una volta dato prova della propria “capacità ed efficacia nel governo”.
Criticità strutturali
Su Silere non possum abbiamo più volte analizzato alcune dinamiche ricorrenti che, come ci viene segnalato, si riscontrano in modo sistematico all’interno di una realtà piccola nelle dimensioni, ma preoccupante per le modalità e le relazioni che la attraversano. E poiché il primo servizio alla Chiesa è la verità, è necessario mettere in luce alcuni aspetti che non possono essere taciuti.
«Anche nell’uso dei social da parte di queste persone - spesso con esperienze di vita già critiche - si notano meccanismi di proiezione, atteggiamenti di rivalsa per l’attenzione mancata e legami poco trasparenti», spiega un sacerdote. La presenza, in tale contesto, di individui che hanno già creato tensioni o problemi nelle Chiese particolari di provenienza, desta legittima preoccupazione.
«Come ha fatto con le monache di San Giacomo di Veglia, voleva mettere mano anche agli statuti degli Oblati», raccontano alcune persone vicine. «Senza dimenticare che molti di questi personaggi appartengono a una lunga lista che voi stessi avete in parte documentato: quando emergono le criticità che li riguardano, reagiscono proiettandole sugli altri, attribuendo colpe e difetti che, in realtà, sono propri. Con la differenza che, mentre le loro accuse mancano di prove, quando si parla di loro le prove ci sono, e sono abbondanti», aggiungono alcuni sacerdoti. Negli ultimi tempi, inoltre, a questa realtà degli Oblati si sono avvicinati sacerdoti con difficoltà relazionali e un forte bisogno di riconoscimento, anche nel mondo digitale. I superiori, purtroppo, non sono capaci di comprendere queste criticità e addirittura li inseriscono nelle consulte regionali che si occupano della formazione dei presbiteri. Non riuscendo a ricevere l’attenzione che vorrebbero, questi preti si rifugiano nei social, dove pubblicano frasi sull’amicizia o sull’importanza delle relazioni, ma frequentano poi piccoli gruppi che trascorrono il tempo a criticare preti e arcivescovi, tra battute e maldicenze. Si lasciano trascinare da queste realtà piuttosto che mettere in pratica quanto predicano a parole. Sono racconti che, peraltro, giungono da chi ha preso parte personalmente a questi aperitivi e che confermano quanto il problema sia più diffuso e profondo di quanto si voglia ammettere.

La nomina di Monsignor Scotti
Come prevedono gli statuti, il Superiore dovrebbe essere scelto tra gli stessi oblati. Tuttavia, l’Arcivescovo ha ritenuto opportuno procedere in deroga a tale norma, segno evidente che, all’interno della comunità, non vi siano figure in grado di assumere un incarico tanto delicato. Ciò nonostante, desta forte perplessità la scelta di un sacerdote come mons. Giuseppe Scotti, che - a detta di molti e come dimostrano alcune vicende - è tutto fuorché prudente. Più volte, infatti, ha mostrato una propensione alla chiacchiera e alla critica, anziché alla discrezione e al discernimento che il suo ruolo richiederebbe. Ben lontano da quella sapienza e carità evangelica che dovrebbero contraddistinguere un presbitero con ruoli di responsabilità (e anche un cristiano sic!), Scotti sembra spesso cedere al risentimento e alla gelosia, soprattutto nei confronti di chi svolge il proprio servizio con maggiore autorevolezza e competenza.
Nella Chiesa, purtroppo, si continuano a ripetere gli stessi errori, come in un copione stanco e logoro che nessuno ha il coraggio di stracciare. Ci sono abati che sventolano il pastorale fuori dalla loro giurisdizione, senza alcuna autorizzazione, come se l’obbedienza fosse un optional. E guarda caso, sono gli stessi che un tempo coprivano le scorribande di giovani problematici nelle proprie abbazie, strumentalizzandoli per creare tensioni e divisioni con le diocesi vicine. Oggi, dove compaiono questi giovani, non mancano mai anche quegli abati, pronti a permettere loro di indossare abiti che non competono e a fomentare quel clima di risentimento e gelosia che sembra essere il vero motore di ogni loro azione e di ogni loro parola.
Ci sono diocesi che permettono a sedicenti “avvocati rotali” di esercitare un ruolo che non meritano, anche quando insultano l’Arcivescovo in carica con critiche meschine e infondate, colpendo la persona più che i fatti, e ignorando perfino che non ha alcuna competenza nelle questioni per cui viene accusato.
Ci sono poi laici e pseudo-religiosi che giocano ad indossare il clergyman o la talare, protetti da realtà ormai ridotte a refugium peccatorum, e che usano quei segni non per servire, ma per mascherare la propria frustrazione e amarezza, riversandola contro i sacerdoti ordinati i quali - sempre secondo il loro dire - "non sono degni di esserlo". La Chiesa tace.
Tace quando questi personaggi irrisolti infestano i social, insinuandosi sotto i profili di preti colpiti da misure canoniche e cacciati dalle loro diocesi, che continuano a diffamare e denigrare coloro di cui sono gelosi, alimentando un clima di odio, veleno e sospetto. Tace quando questi soggetti problematici interagiscono con millantatori di titoli coinvolti in procedimenti penali per estorsione, violenza, diffamazione, atti persecutori e stalking - persone che le procure hanno faticato persino a rintracciare per anni, perché si rendevano irreperibili, ma che trovano il tempo di infangare gli altri dietro uno schermo e sono riusciti a farsi anche cacciare dalle chat di professionisti perchè hanno iniziato ad insultare vere professioniste.
E allora viene da chiedersi: che testimonianza può dare un “consacrato” che popola i social in questo modo, nutrendosi di rancore e menzogna, invece di essere segno di verità e misericordia? Davvero il problema sono quelli che abitano i social nel tentativo di raggiungere i lontani, o non è forse più scandaloso chi si riveste di abiti ecclesiastici al solo fine di sentirsi qualcuno e per alimentare un clima sterile, velenoso e mortifero, travestendo da zelo ciò che è in realtà frustrazione e desiderio di potere?
La Chiesa tace ancora quando il clero, già stanco e logorato, si trova costretto a sopportare la presenza di questi soggetti disturbati, che invece di cercare una soluzione alla propria vita, passano le giornate a sparlare, a infangare, a distruggere. Hanno perso la vocazione prima ancora di riceverla, ma non rinunciano al travestimento: una talare o un camice come ultima maschera, convinti che basti l’abito a nascondere tutto ciò che marcisce sotto.
d.C.F. e d.B.M.
Silere non possum