Nel suo lungo episcopato, il cardinale Carlo Maria Martini non elaborò mai un “trattato” sul sacerdozio, ma una visione vissuta, disseminata nelle lettere pastorali come una sorta di teologia in cammino. Al centro c’è un’immagine del sacerdote che rompe gli schemi clericali e restituisce al ministero la sua radice umana e spirituale.
La conversione dello sguardo: dal ruolo alla relazione
All’inizio del suo servizio a Milano, nel messaggio d’ingresso del 1980, Martini afferma di sentirsi chiamato non a un potere ma a una partecipazione: «Sento la chiamata del vescovo prima di tutto come una vocazione a una partecipazione strettissima all’offerta che Cristo fa della sua vita per il suo popolo» (Messaggio nel giorno dell’ingresso nell’Arcidiocesi di Milano, 1980).
Non è una definizione istituzionale, ma una dichiarazione spirituale: il sacerdote non “fa” qualcosa, ma “offre” sé stesso. Martini sposta così l’asse del sacerdozio dall’efficienza all’essere, dall’amministrazione alla comunione. È un prete che non rappresenta Cristo come un’immagine esterna, ma vi partecipa interiormente, nella logica della croce.
Nella sua prima Lettera pastorale, La dimensione contemplativa della vita (1980), Martini insiste che ogni azione ecclesiale nasce da una radice interiore: «La Parola non da sola, perché altrimenti potrebbe risuonare in un ambiente distratto, ma la Parola ascoltata con venerazione, nel silenzio, con un cuore che attende»
Questa frase, all’apparenza semplice, racchiude la chiave della sua idea di sacerdote: un uomo che ascolta prima di parlare, che crea spazio a Dio nel silenzio del proprio cuore, prima di colmare quello degli altri con parole.
Martini comprende che in una città come Milano - efficiente, attivista, satura di rumore - la prima rivoluzione del clero doveva essere interiore: ritrovare la contemplazione come radice della missione. «L’ansia della vita non è la legge suprema», scrive, ma è vinta «da un senso più profondo dell’essere dell’uomo, da un ritorno alle radici dell’esistenza». Il sacerdote, dunque, è un uomo che restituisce tempo al tempo, che si oppone alla corsa per “fare” e insegna invece a “essere”.
La spiritualità dell’offerta: vivere in Cristo e con Cristo
Negli anni successivi, soprattutto nella Lettera “Attirerò tutti a me” (Gv 12,32). L’eucaristia al centro della comunità e della sua missione (1982), Martini chiarisce che la presenza di Cristo nel mondo passa attraverso il ministero di uomini che si lasciano trasformare da Lui: «La presenza del Signore Gesù è assicurata dal servizio sacerdotale che agisce in persona Christi. Ma tale presenza esige che il sacerdote condivida l’offerta che il Redentore fa di se stesso».
Qui si coglie il cuore della spiritualità dell’offerta: non un rito da ripetere, ma un’esistenza da conformare. Il sacerdote non è un “funzionario del sacro”, ma un uomo che si lascia ferire dalla stessa logica del dono. Per Martini, l’Eucaristia è il “verbum contractum”, la Parola concentrata nel pane, segno che «diventa carne nella storia degli uomini». Il prete è chiamato a farne la sua stessa carne. Da qui la radicalità di un’affermazione che suona quasi come un testamento: «Il mio ministero è la mia Eucaristia» (Ripartiamo da Dio, 1995).
Il sacerdote, allora, non celebra solo sull’altare, ma diventa egli stesso altare, luogo di un’offerta che non si misura in successi ma in fedeltà. Questa logica di “partecipazione” lo libera anche dalla tentazione del protagonismo: «Il mio compito è quello di chi affida alla recettività del terreno il proprio lavoro» (Sulla tua Parola, 2001). Il pastore semina, ma non controlla i frutti. La fecondità è affidata alla grazia, non al calcolo.
In questo modo, Martini riconduce il ministero alla forma pasquale: non un privilegio, ma un continuo morire e rinascere. «La nostra debolezza sarà forza e vittoria se sarà la ripresentazione del mistero della debolezza, dell’umiltà e della mitezza del nostro Dio» (Lettera di presentazione al Libro sinodale, 1995).
Il prete della Parola: adulto nella fede, umile nel dubbio
C’è un’altra nota costante nel magistero di Martini: l’idea che il sacerdote debba essere un uomo della Parola e della coscienza.
Nella Lettera Cento parole di comunione (1987), Martini scrive: «Sento, quanto più mi addentro nell’argomento, che la parola di Dio è qualcosa che ci supera da ogni parte, che ci avvolge e che quindi ci sfugge. […] È stata la Parola per prima a rompere il silenzio, a dire il nostro nome, a dare un progetto alla nostra vita».
Il sacerdote, quindi, è colui che non “possiede” la Parola ma ne è posseduto, che non parla “di” Dio ma lascia che Dio parli “in” lui. Per questo Martini avverte: «È necessario che il prete viva un rapporto adulto con gli adulti. […] Quando un sacerdote vive in prevalenza un rapporto con i giovani, ma raramente con gli adulti, ciò può compromettere la maturazione della fede adulta della comunità» (Educare ancora, 1989).
Il ministero non è animazione, ma accompagnamento nella complessità della vita. Il sacerdote è chiamato a essere amico, interlocutore, uomo che ascolta. In un passaggio memorabile della Lettera “Sto alla porta” (1992), Martini offre la chiave esistenziale di questa maturità: «Ostentare ricchezza, potere, sicurezza, salute, attivismo, sono tutti espedienti per esorcizzare l’angoscia del tempo che ci sfugge dalle mani. […] Eppure, sappiamo che la partita non potrà durare all’infinito, e la morte avrà l’ultima mossa».
Qui il sacerdote diventa testimone del limite, non superuomo della fede. È colui che sa restare “alla porta”, in attesa, come sentinella che veglia tra la notte e l’alba. E forse in questa figura discreta e ferita si riassume il sogno di Martini: un prete non invincibile, ma credente; non separato, ma consegnato; non maestro di certezze, ma compagno di cammino. Come scrisse nel suo commiato: «Vi affido al Signore e alla Parola della sua grazia» (Lettera di congedo all’Arcidiocesi di Milano, 2002).
Un testamento che vale per tutti i sacerdoti: la forza del prete non è nel suo ruolo, ma nella Parola a cui si affida e da cui si lascia portare.
d.W.A.
Silere non possum