Orem - «Io combatto la tua idea, che è diversa dalla mia, ma sono pronto a battermi fino al prezzo della mia vita perché tu, la tua idea, possa esprimerla liberamente». Così scriveva nel 1906 Evelyn Beatrice Hall, sintetizzando il pensiero di Voltaire. È una frase che oggi risuona come un monito dimenticato.
Nelle ultime ore, dopo il grave attentato contro Charlie Kirk, c’è chi ha commentato la notizia con un ghigno, come se la morte — quella più tragica delle esperienze umane — potesse mai trasformarsi in un’occasione di rivalsa politica. Ma davvero siamo arrivati a pensare che la scomparsa di un uomo, per quanto distante dalle nostre idee, sia un “bene”? Davvero la morte di un migrante, di un politico o di un oppositore deve diventare motivo di festa?
La violenza non si presenta mai in un’unica forma. C’è quella più brutale, che deflagra in un colpo di pistola e lascia a terra un corpo senza vita; un’immagine che, con inquietante frequenza, sembra ormai confondersi con lo sfondo abituale delle nostre cronache. Eppure, se guardiamo più a fondo, ci accorgiamo che la minaccia della pena non ha la forza di trattenere chi ha deciso di oltrepassare ogni limite: chi vuole uccidere non si lascia intimidire dal carcere. Forse, allora, stiamo raccogliendo i frutti amari di ciò che non abbiamo avuto il coraggio di seminare: un’educazione autentica, preferendo troppo spesso al rigore della formazione le scorciatoie delle giustificazioni.
Ma la violenza non è solo quella che fa rumore con le armi. Ne esiste un’altra, più silenziosa e non meno letale: quella delle parole. Offese, calunnie, diffamazioni e menzogne che si moltiplicano tra le pieghe dei social network, dove l’anonimato diventa al tempo stesso maschera e coltello. Così si diffonde una violenza che non versa sangue, ma lacera reputazioni, isola persone, uccide socialmente. E, a volte, a legittimare questa violenza non è solo la folla digitale: sono anche istituzioni che, anziché difendere la verità e la dignità delle persone, scelgono la via dell’amicizia e dei “rapporti sottobanco”, lasciando impunito l’altro volto dell’omicidio.
Viviamo in un’epoca in cui l’intolleranza è diventata ordinaria. Non ci scandalizziamo più del male inflitto a chi non appartiene alla nostra parte, al nostro partito, al nostro schieramento. Ma se la società smarrisce la capacità di piangere i suoi morti, chiunque essi siano, cosa resta della nostra umanità condivisa? Non rischiamo di trasformare ogni dissenso in un motivo di odio?
Forse dovremmo tornare a quella lezione antica che ci ricorda che non si tratta di amare le idee dell’altro, ma di riconoscere la dignità della persona che le porta, anche quando quelle idee ci sono estranee o persino ostili. Perché senza questo rispetto minimo, non ci sarà più dialogo, ma soltanto una guerra civile strisciante: con le armi in mano o con le dita sulla tastiera.
f.R.A.
Silere non possum