Nel lessico ecclesiale una parola è diventata ambigua più di altre: obbedienza. C’è chi la invoca per mettere tra parentesi la coscienza e chi la rifiuta perché la identifica con la repressione. In entrambi i casi si perde la persona: resta l’alternativa sterile tra conformismo e isolamento.

Don Luigi Giussani, nei dialoghi e nelle lezioni che teneva negli incontri settimanali (ottobre 1993 – giugno 1994) con un gruppo di giovani all’inizio del cammino vocazionale nei Memores Domini, confluiti nel volume Si può vivere così?, rovescia l’impostazione più comune con una definizione che non addolcisce nulla: l’obbedienza non è anzitutto un atto di disciplina, ma una forma di amicizia. E spiega: un’amicizia senza obbedienza resta sentimentale, esposta all’umore del momento, senza durata e senza volto. Non è un esercizio lirico. È un criterio pratico, che obbliga a una domanda scomoda - oggi forse più urgente di ieri: quando l’obbedienza smette di essere relazione e si riduce a meccanismo di pura sottomissione?

L’obbedienza che fa crescere: il paradosso della dipendenza che diminuisce

Giussani descrive l’obbedienza come un cammino in cui, progressivamente, la dipendenza dall’altro si riduce, non aumenta. La frase è decisiva: «Man mano che lo capisci, non dipendi più da chi te lo dice». Qui sta la differenza tra educazione e addestramento. Se “obbedire” significa diventare sempre più incapaci di giudizio personale, allora non stiamo assistendo alla maturazione della fede; stiamo producendo una forma di minorità permanente, spiritualmente travestita. Se invece obbedire porta a una coscienza più larga e vigile - capace di riconoscere, assumere, rischiare - allora quell’obbedienza non è una delega: è un atto dell’io.

Giussani prende di mira proprio l’idea corrente secondo cui obbedire sarebbe “dire di sì” e “fare ciò che ti dicono”.La chiama, senza giri di parole, un concetto da soprabito: qualcosa che indossi sopra la persona, senza toccarla davvero. Per lui l’inizio è diverso: nasce dal riconoscere una corrispondenza tra ciò che ti viene proposto e le esigenze del tuo cuore, e quindi dal desiderio di capire. Obbedienza, in questo senso, non è spegnere la ragione: è usarla fino in fondo.

L’equivoco più pericoloso: chiamare “obbedienza” la paura

La riga che la Chiesa dovrebbe temere - perché fa da cartina di tornasole - è quella in cui Giussani dice che, se non si arriva al livello dell’amicizia, «non è obbedienza, è schiavitù». Non è un insulto: è un discernimento. La schiavitù spirituale ha due sintomi tipici. Il primo è la ricerca compulsiva di copertura: non scelgo, mi faccio dire; non decido, mi faccio autorizzare; non mi assumo il rischio della libertà, lo trasferisco su qualcun altro. Giussani lo nomina con precisione: vivere “senza demandare ad un altro ogni responsabilità”. Il secondo sintomo è l’immunità della guida: l’autorità diventa intoccabile, quindi non più educativa ma proprietaria.

Ed è qui che la parola “amicizia” smette di essere un ornamento e diventa una pretesa esigente: un amico è interrogabile. Non perché debba giustificarsi come imputato, ma perché non teme la verità. Giussani lo rende concreto: quando mi chiedi “perché hai fatto così?”, io posso rispondere in modo più reale, meno teorico. Una guida che non tollera domande non sta proteggendo la fede: sta proteggendo sé stessa.

La condizione che manca: la “semplicità del cuore” non è infantilismo

In questa dinamica entra un’altra parola spesso fraintesa: semplicità. Giussani la lega all’obbedienza proprio perché, dice, nell’obbedienza “devi seguire qualcosa d’altro e non te”. Ma semplicità non significa “meno pensiero”: significa un io non diviso, non sofisticato nel difendersi, capace di riconoscere l’evidenza quando la incontra.

Questo è il punto in cui l’obbedienza mette in crisi tanto l’individualismo quanto il clericalismo. L’individualismo perché non accetta che la verità possa raggiungerti tramite un altro; il clericalismo perché scambia la mediazione con il possesso, e cioè pretende obbedienza senza guadagnarsi credibilità.
Giussani, invece, lega l’obbedienza al fatto originario dell’incontro: seguire nasce quando ti accorgi di una diversità umana che corrisponde più profondamente al tuo cuore e riapre un ideale. Se non c’è questa credibilità, tutto il resto è retorica.

Perché questo tema oggi non è “interno” alla Chiesa

È questa l’intuizione di don Giussani di cui la Chiesa avrebbe bisogno oggi per contrastare davvero gli abusi di coscienza: un’obbedienza che educa la libertà e non la sostituisce. Eppure, troppo spesso, la Chiesa sembra temere proprio questa libertà. Molti dei disastri ecclesiali degli ultimi decenni non sono dipesi soltanto da colpe individuali, ma da una cultura che ha scambiato l’obbedienza per la tutela del sistema, trasformandola in un dispositivo di copertura invece che in un cammino di verità. In questo clima, la domanda “perché?” viene interpretata come disobbedienza; la richiesta di trasparenza come tradimento; la coscienza come problema. È così che l’obbedienza, invece di essere amicizia che libera, diventa disciplina che copre.

Ma c’è anche un rischio speculare, altrettanto sterile: pensare che l’unica salvezza sia l’autonomia assoluta, la Chiesa come somma di monadi spirituali. Giussani non dà spazio a questa fuga: l’io, dice, è sé stesso quando è insieme, e l’insieme nasce da una forma di obbedienza. Il vero problema non è “obbedire o no”, ma a che cosa obbedisci: a un potere o a una verità che tu riconosci.

Un criterio finale, verificabile

Se vuoi capire se un’obbedienza è cristiana o patologica, non chiederti quanto è impeccabile la forma. Chiediti che cosa produce.

Se produce persone che, col tempo, dipendono di più e giudicano di meno, non è obbedienza: è schiavitù mascherata.
Se produce persone che, col tempo, capiscono di più e diventano più responsabili - fino a “seguire se stessi” nella luce ricevuta - allora quell’obbedienza è amicizia: è educazione della coscienza.

Alla Chiesa, oggi, serve il coraggio di smettere di usare male questa parola. E serve anche ai fedeli la decisione di non cercare più scorciatoie: non trasformare l’autorità in assicurazione contro la libertà, non trasformare la libertà in alibi contro la verità. L’obbedienza, se è reale, non ti toglie l’io: te lo restituisce, più adulto.

d.M.S.
Silere non possum