Milano - Non sarà soltanto una grande festa diocesana quella che riunirà sabato in Duomo oltre 1.800 coristi e direttori provenienti da 142 cori dell’intera diocesi ambrosiana. Il Giubileo dei cori, presieduto dall’Arcivescovo mons. Mario Delpini, intende riportare al centro della vita ecclesiale una domanda semplice e decisiva: perché la Chiesa canta?
È la stessa domanda che attraversa la nuova lettera “Il canto della profetessa”, che l’Arcivescovo consegnerà ai direttori dei cori al termine della celebrazione. Un testo breve ma denso, dove la riflessione parte dall’immagine di Maria, sorella di Mosè, che dopo la liberazione dall’Egitto “prende in mano un tamburello” e forma “cori danzanti perché nessuno si senta escluso”. «Senza ritmo - scrive Delpini - la gioia fatica a risorgere». Il canto, allora, non è ornamento, ma linguaggio della salvezza, un modo concreto di “prendersi cura dell’assemblea”.
Il canto che risveglia la fede
Il testo si apre con una constatazione: nella Chiesa di oggi, «si dà per scontato di avere a che fare con persone già iniziate al linguaggio simbolico del rito». Ma non è così. L’Arcivescovo invita a non presumere una competenza rituale automatica, ma a formare e accompagnare il popolo perché riscopra la bellezza di cantare insieme. Risuonano, in più pagine, le parole di disincanto raccolte nelle parrocchie: “Non siamo abituati”, “nessuno ci insegna”, “che noia!”. Delpini le mette in scena con il suo consueto tono narrativo, attraverso figure simboliche - Victor, Paul e Laura - rappresentanti di una Chiesa che rischia di diventare “un’assemblea spenta e muta”.
«Qualche volta - scrive - si sente dire che ciò che conta sia la buona volontà, sostenendo che la celebrazione non sia intaccata dalla scarsa qualità del canto, della musica, dei gesti messi in atto: «La messa è valida comunque», si sente dire come giustificazione. Eppure, Dio ha bisogno della collaborazione di noi, uomini e donne, perché possa far sentire il suo amore, la sua cura, e attrarre i cuori a sé attraverso il fascino della bellezza».
E, aggiunge, «è una benedizione chi, come Victor, prende l’iniziativa: anche la gente che non è abituata a cantare può imparare, scoprendo che un corale intonato sullo stesso tempo, a una voce sola, può donare nuovo slancio al cammino di fede».
Una Chiesa che canta con il cuore
Nella seconda parte, l’Arcivescovo spiega che guidare il canto non è una questione tecnica, ma una forma di carità pastorale: «Più che di un direttore parlerei di qualcuno che guidi il canto del popolo radunato, perché la bellezza che si sperimenta dall’unire la voce a quella del fratello possa vincere la passività, la vergogna, l’individualismo». Richiamandosi a Sacrosanctum Concilium, Delpini ribadisce che la liturgia non è un momento “da spettatori”, ma il culmine e la fonte della vita cristiana. Per questo invita a riscoprire il senso comunitario del rito: «Guardare i presenti con occhi di stima, senza giudizio, e far sentire accolta ogni persona» diventa il primo atto liturgico. In un passaggio particolarmente incisivo, l’Arcivescovo sintetizza l’atteggiamento interiore del ministero liturgico: «Se basta una parola, non fare un discorso. Se basta un gesto, non dire una parola. Se basta uno sguardo, non fare nessun gesto».
Maria, profetessa della gioia
La conclusione della lettera ritorna alla figura biblica che le dà il titolo: Maria, la profetessa, che “dà corpo alla gioia” del popolo liberato. «Senza quel ritmo, quell’armonia, quella disposizione delle voci - scrive Delpini - la lode di Mosè e del popolo, forse, non sarebbe stata piena».
È l’immagine che sintetizza la visione del Pastore: una Chiesa che canta non per dovere, ma per grazia, perché “tutto l’umano è coinvolto, invitato e salvato”. Il documento si chiude con un appello che ha quasi il tono di una chiamata vocazionale: «Sono sicuro che in molte parrocchie ci siano persone come Victor, Paul e Laura, che si possono fare avanti… Li invito a rispondere al Signore con il loro Eccomi!».
Un Giubileo per ritrovare la voce
Nel segno di questa lettera, il Giubileo diocesano dei cori diventa più di una convocazione: è un gesto profetico. Dopo la meditazione di mons. Fausto Gilardi e la possibilità di accostarsi alla Riconciliazione, la celebrazione eucaristica delle 11.30, con la Cappella Musicale del Duomo guidata da Alberto Sala, darà corpo a quella lode comune che Delpini invoca: un canto che “ridà speranza, fa sentire meno soli e rende percepibile la presenza di Dio”. Non solo una giornata per i musicisti, dunque, ma un passo per tutta l’arcidiocesi verso una liturgia che si fa relazione, ritmo e profezia.
d.L.V.
Silere non possum