Città del Vaticano - Ieri sera, al termine della Santa Messa giubilare con gli universitari, Leone XIV ha firmato nella Basilica di San Pietro una Lettera apostolica. Oggi quella Lettera è stata pubblicata. Non è un dettaglio liturgico: è una collocazione simbolica che lega il gesto alla memoria di un altro testo - Gravissimum educationis, 28 ottobre 1965 - e accompagna il Giubileo con una domanda semplice e scomoda: che cosa significa educare in un tempo che sa connettere quasi tutto ma fatica a tenere insieme qualcuno? 

Il titolo, Disegnare nuove mappe di speranza, dichiara il metodo: non cambiare il Vangelo, ma la cartografia. La Lettera parte da qui: l’educazione non è un’attività accessoria; è la trama concreta con cui l’annuncio diventa relazione, cultura, lavoro quotidiano nelle scuole e nelle università. È la “cosmologia della paideia cristiana”: una visione che tiene insieme fede e ragione, pensiero e vita, conoscenza e giustizia. Non un manifesto identitario, piuttosto una bussola per attraversare un ambiente “complesso, frammentato, digitalizzato”.






Un anniversario che impegna, non che assolve

Sessant’anni dopo, Gravissimum educationis resta una “bussola”: diritto all’educazione per tutti, famiglia come prima scuola di umanità, sussidiarietà come architettura pubblica. E un monito: la persona non si riduce a un “profilo di competenze” né a un algoritmo; la professionalità chiede un’etica, e l’etica esige pratica. Non è retorica: è il principio che impedisce di trasformare la scuola in un semplice dispositivo di addestramento.

Se è vero, allora, che il Concilio ha indicato diritti e doveri di genitori e istituzioni, quale alleanza educativa stiamo tessendo oggi? La Lettera risponde rilanciando una triade concreta: centralità della persona, corresponsabilità con i genitori, formazione degli insegnanti - scientifica, pedagogica, culturale e spirituale. Non bastano aggiornamenti tecnici: serve “un cuore che ascolta” e una governance capace di qualità e coraggio.

Una genealogia che smentisce i nostalgici

Il testo non indulge alla nostalgia. Ripercorre una storia operosa: Padri del deserto e Agostino, monachesimo e università medievali, la Ratio Studiorum e i carismi educativi nati per i poveri - Calasanzio, De La Salle, Champagnat, Don Bosco - e le grandi figure femminili che hanno aperto varchi a ragazze, migranti, ultimi. Una pedagogia “di carne”: senza quel lavoro, ricorda il Papa, molti capolavori non sarebbero arrivati fino a noi. La tradizione, insomma, non come ripetizione, ma come invenzione responsabile.

Newman co-patrono: domande che non si zittiscono

C’è un passaggio decisivo: “nessuno educa da solo”. La comunità educante è un noi che impedisce l’acqua stagnante del “si è sempre fatto così”. In questo noi la relazione precede il programma, e il dubbio non è bandito ma accompagnato. Non a caso il Papa dichiara San John Henry Newman co-patrono della missione educativa insieme a Tommaso d’Aquino: “la verità religiosa non è solo una parte ma una condizione della conoscenza generale”. Tradotto: l’università cattolica non è la caserma del pensiero, ma un luogo dove cor ad cor loquitur.

Costellazioni, non feudi

Il mondo educativo cattolico appare come una costellazione: scuole parrocchiali e collegi, università e istituti superiori, centri di formazione professionale, movimenti, piattaforme digitali. Ogni stella ha luce propria; insieme disegnano una rotta. Questa immagine serve a dire due cose: le differenze non sono zavorre (se ben coordinate), e l’unità non è uniformità. Occorrono scambi reali, riconoscimento di buone pratiche, cooperazione missionaria e accademica. Meno rivalità, più convergenza.

Da qui discende una richiesta politica e pastorale: garantire accesso ai più poveri, sostenere famiglie fragili, promuovere borse di studio, praticare una governance capace di qualità. “Perdere i poveri equivale a perdere la scuola stessa”. È un criterio di verità, non uno slogan.

L’attrito del digitale e la questione dell’IA

Che cosa significa educare nella società degli algoritmi? Il testo risponde senza tecnofobie: le tecnologie servano la persona, arricchiscano l’apprendimento, non impoveriscano relazioni e comunità. Nessun algoritmo sostituirà poesia, ironia, immaginazione, la gioia dell’errore che diventa crescita. L’IA, allora, va governata: dignità, giustizia, lavoro; etica pubblica e partecipazione; riflessione teologica e filosofica all’altezza. Le università cattoliche? Meno cattedre come palchi, più tavole dove sedersi insieme. Una definizione perfetta di “diaconia della cultura”.

Il Patto Educativo come stella polare (e tre priorità)

La Lettera Apostolica di Leone XIV raccoglie l’eredità del Patto Educativo Globale (le sette “vie”: persona al centro; ascolto dei giovani; dignità e piena partecipazione delle donne; famiglia; inclusione; rinnovamento di economia e politica; cura della casa comune) e, a cinque anni dal lancio, chiede di rilanciare, non di amministrare l’esistente. Aggiunge tre priorità: vita interiore (silenzio, discernimento), digitale umano (persona prima dell’algoritmo, integrazione delle intelligenze), pace disarmata (linguaggi non violenti, ponti e non muri). È una grammatica per attraversare crisi di attenzione, relazioni ferite, disuguaglianze crescenti.

Una domanda finale ci interroga

Se l’educazione è “mestiere di promesse” - tempo, fiducia, competenza, giustizia, misericordia - chi promette che cosa, a chi, e con chi? La Lettera consegna tre verbi che suonano come un esame di coscienza civile: disarmare le parole, alzare lo sguardo, custodire il cuore. Disarmare, perché la polemica non educa; alzare, perché l’orizzonte viene prima dell’urgenza; custodire, perché la relazione precede l’opinione. È un invito rivolto a pastori, docenti, genitori, studenti, amministratori. Una benedizione rovesciata in responsabilità. Non si tratta di un documento “per gli addetti ai lavori”, dunque, ma un atto politico nel senso più alto: dire quale idea di uomo e di società stiamo imparando a insegnare. E chiedere se abbiamo ancora il coraggio di promettere.

d.S.A.
Silere non possum