Città del Vaticano - Quando si parla di un Papa, inevitabilmente, si proiettano su di lui categorie psicologiche e spirituali che rischiano di deformare la realtà. Non è raro che, di fronte ai primi cento giorni di Leone XIV, qualcuno lo abbia paragonato a Francesco. C’è chi, come Antonio Spadaro, non ha esitato a mettere in piedi una vergognosa operazione di marketing, sfruttando volto e nome di Leone XIV per ricavarne profitto, insieme ad Alberto Melloni, che di simili pratiche non è certo alla prima esperienza. Intanto, il Dicastero che dovrebbe vigilare sull’immagine del Papa è troppo occupato a pubblicare sui social post pieni di errori, per richiamare all’ordine questi personaggi. In fondo, è cosa nota: in Vaticano, se sei “amico di”, puoi permetterti qualsiasi cosa.
Spadaro si è abbandonato a un’osservazione superficiale e priva di fondamento, sostenendo che la stessa inquietudine avrebbe guidato Francesco e oggi animerebbe Leone XIV. Ma è davvero così?
La parola “inquietudine” ha un peso teologico e spirituale preciso. Sant’Agostino, nelle Confessioni, afferma: “Inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te”. L’inquietudine, dunque, è quel moto interiore che nasce dalla consapevolezza del limite umano e dal desiderio inesauribile di Dio. È una ferita che brucia, ma che non distrugge: è tensione verso l’Altro, nostalgia di un riposo che non si trova nelle cose terrene.
Chi osserva Leone XIV, nei suoi gesti sobri e nella sua parola mai gridata, percepisce proprio questo tipo di inquietudine. È un uomo che non si accontenta, che cerca continuamente di condurre la Chiesa al cuore del Vangelo, con la consapevolezza di non possedere mai fino in fondo la risposta. La sua non è agitazione, ma sete. È un’inquietudine che porta silenzio, ascolto, ricerca, vigilanza.
Diverso è quanto ha dimostrato Francesco in dodici anni di pontificato. Quella che lo animava non era la stessa inquietudine agostiniana, bensì una sorta di irrequietezza. La differenza è sostanziale. L’irrequietezza è il movimento continuo che impedisce di fermarsi, la difficoltà a trovare stabilità, la necessità di produrre costantemente novità per non cadere nell’immobilismo. È un moto più nervoso che spirituale: un’attività che rischia di confondere il dinamismo evangelico con il semplice attivismo umano.
Se l’inquietudine è radicata nella profondità dell’anima, l’irrequietezza rimane spesso in superficie. La prima conduce alla preghiera, alla contemplazione, all’attesa fiduciosa; la seconda porta piuttosto all’agitazione, alla ricerca di consensi, a una continua accelerazione che non lascia spazio al silenzio.
Ecco perché il paragone tra Leone XIV e Francesco, sotto questo profilo, non regge. Il primo vive quella sana inquietudine che nasce dalla coscienza della propria piccolezza davanti a Dio, e che diventa, paradossalmente, forza spirituale. Il secondo ha spesso mostrato invece una irrequietezza che, pur animata da intenzioni pastorali, si è tradotta in una continua frenesia di gesti e parole.
Forse è proprio in questa differenza che si gioca la percezione attuale dei due pontificati: Leone XIV appare come un uomo che, pur nel turbamento, sa stare in silenzio davanti al Mistero; Francesco come un uomo che, pur desideroso di vicinanza, non riusciva a sottrarsi al bisogno di apparire, far parlare di sé e parlare lui stesso incessantemente.
La vera inquietudine, ci ricorda Agostino, è dono: non ci lascia in pace, ma ci conduce a Dio. L’irrequietezza, invece, spesso ci disperde.
d.T.A.
Silere non possum