Roma – Leone XIV entra nella sua Cattedrale, San Giovanni in Laterano, e alla sua destra sfilano i tre nomi che, per il clero romano, sono diventati dei forti mal di pancia: Reina, Tarantelli, Di Tolve. Non è un dettaglio di protocollo. È il quadro di una stagione in cui il Vicariato è stato piegato a logiche estranee all’Urbe, e le parrocchie hanno imparato a temere le circolari più che ad attendere la carezza del Pastore.
Reina e Di Tolve sono stati imposti dall’esterno, “calati dall’alto” da Francesco, che negli anni ha manifestato un’avversione senza precedenti verso la stessa Chiesa di cui avrebbe dovuto essere vescovo. Il primo si è progressivamente allineato alle regie di Renato Tarantelli, intuendone presto il peso specifico nei corridoi di Santa Marta. Il secondo, come abbiamo documentato più volte, sembra misurare l’efficacia del ministero con il metro del consenso del potente di turno, più che con la schiena piegata sulla formazione dei futuri preti. Una domanda continua a serpeggiare in Vaticano e nell’Urbe: perché un vescovo al Seminario Romano? Non è mai arrivata una che avesse un senso.
Poi c’è Tarantelli. Dalla toga mancata alla talare brillante, la traiettoria è nota: una scalata rapida, assecondando le scelte – e le debolezze – della precedente gestione, fino a trasformare il Vicariato in una macchina contorta, distante, autoreferenziale. Il resto è estetica: croci pettorali cambiate come si cambia stagione, un’immagine lucidata che non riesce a mascherare lo scollamento profondo con il presbiterio che non vuole neppure sentirlo nominare. Quando oggi Renato Tarantelli ha fatto il suo ingresso in Basilica, un monsignore ha sussurrato: “All’epoca, quando bisognava compiacere chi, piegando la liturgia a esigenze di potere, pronunciò quel famoso ‘Molto volentieri’, le croci erano ben lontane dall’essere d’oro e luccicanti!”.
Oggi, al Laterano, la frecciatina di Leone XIV lo ha raggiunto comunque, nonostante il guardaroba. «Gli uffici del Vicariato a ciò preposti devono lavorare con le parrocchie, avendo particolare cura della formazione continua dei catechisti», ha detto il Pontefice. Lavorare con le parrocchie, lavorare con i parroci. Aspetto che Tarantelli ha dimenticato, dovendo essere sempre presente ai momenti di sfilata e di potere. La realtà è che Roma soffre: la trasmissione della fede si è assottigliata, i giovani evaporano, le famiglie arrancano, e troppi uffici sono diventati filtri anziché ponti.

Leone XIV alla sua Chiesa di Roma
Tolto il rumore di fondo, il discorso del Papa è stato lineare, persino esigente. Nessun slogan, poche concessioni alla retorica. Tre parole chiave tengono insieme l’impianto: dono, sinodalità, formazione.
Leone XIV parte dal Vangelo della Samaritana (Gv 4): l’acqua viva non è un’immagine dolce, è una pretesa. Significa ricordare alla Chiesa di Roma che non esiste progetto pastorale se non dentro lo Spirito, e che la “riforma” non è manutenzione degli organigrammi ma conversione di mentalità. Il Papa richiama il Concilio Vaticano II e una coppia di categorie dimenticate perché scomode: sacramentalità ed esemplarità. La Chiesa non è un ufficio con timbri; è il mysterium lunae: vive della luce di Cristo e la riflette. Dove non c’è riflesso, c’è amministrazione, non missione.
Sinodalità senza finzioni
C’è un passaggio che vale più di tante pagine di cronache: la sinodalità non è riunirsi per verbalizzare, è discernere per decidere. Gli organismi di partecipazione – consigli, prefetture, settori – sono stati pensati per collegare territorio e centro; a Roma, troppo spesso, hanno funzionato da paratie. Leone XIV li riposiziona: devono diventare spazi di vita, luoghi dove si ascolta, si discute, si assumono responsabilità. Non “riunioni per tema e poi ognuno a casa sua”. Una città che corre pretende un corpo ecclesiale che pensa insieme e agisce insieme. E qui si capisce il bersaglio: basta cabine di regia che drenano energie, serve pastorale condivisa tra parrocchie, settori, uffici.
Iniziazione cristiana: uscire dalla scuola, tornare alla vita
La richiesta dei sacramenti scende. Non lo si cura con moduli più lunghi. Il Papa chiede una catechesi non scolastica, che integri l’esistenza: ascolto della Parola, gusto della preghiera, esercizio della carità. Famiglie coinvolte davvero, non convocate come figuranti. Attenzione specifica per chi chiede il Battesimo in età adolescenziale e adulta: itinerari seri, comunità che adottano e accompagnano, linguaggi nuovi dove serve. Qui la stoccata al Vicariato è chirurgica: gli uffici devono lavorare con le parrocchie, non distaccati e contorti. Tradotto: formare catechisti non con dispense standard, ma con percorsi continui, esigenti, incarnati nelle realtà.
Giovani e famiglie: accompagnare senza sostituire
“Solidale, empatica, discreta, non giudicante”: non è un florilegio, è un metodo. La pastorale familiare e giovanile deve smettere di replicare il “si è sempre fatto così” e diventare apprendistato: insegnare a pregare, leggere la vita, tessere relazioni. La Chiesa che non giudica non è la Chiesa che abdica: è la Chiesa che cammina accanto perché chi è fragile non si senta un caso da archiviare. Qui Roma si gioca tutto: o diventa casa – con porte, volti, tempi veri – o resterà un cancello che si apre e si richiude senza lasciare traccia.

Emergenza formativa: non bastano i buoni propositi
La parola emergenza non è iperbole. Leone XIV dice che non possiamo illuderci: due attività ben riuscite non tengono in piedi una comunità. Servono percorsi biblici e liturgici stabili, e un confronto serio con le questioni che bruciano: giustizia sociale, pace, migrazioni, custodia del creato, cittadinanza, fragilità mentali e dipendenze, vita di coppia. Nessuno è specialista di tutto, ma nessuno può sottrarsi al dovere di pensare. Roma è una miniera di competenze: il Papa invita a chiamarle dentro, a farle servire il Popolo di Dio.
Non da soli: popolo, pastori, decisioni
“Tutto questo dev’essere pensato e fatto insieme”. La parola, abusata, qui torna alla sua durezza originaria: corresponsabilità. Con i pastori che guidano – e non orchestrano – e un popolo che partecipa – e non acclama. Il riferimento alla Samaritana chiude il cerchio: l’incontro vero produce missione. Lasciare la brocca e correre in città. È l’immagine più spietata per Roma: quali brocche dobbiamo lasciare? Le prassi senza frutto? Le liturgie usate come messaggi cifrati? Le catene di comando che parlano solo tra loro?
Il banco di prova: il Vicariato
Rileggiamo allora la frase-chiave con cui abbiamo aperto. Se gli uffici non diventano alleati delle parrocchie, la stagione di Leone XIV resterà un esercizio di stile. Il Papa ha indicato la strada: partecipazione reale, iniziazione che rigenera, formazione a tutti i livelli, pastorale per i vivi e non per i moduli. A chi sta ai piani alti spetta un compito semplice e scomodissimo: mettersi al servizio. Non occupare, pavoneggiarsi, fare intrallazzi e organigrammi. Non presidiare, connettere.
La presenza di Reina, Tarantelli e Di Tolve accanto al Papa non cambia la diagnosi: la diocesi è ferita da anni di imposizioni e sperimentazioni a freddo. Il discorso di oggi, però, toglie gli alibi. D’ora in poi, ogni circolare che intralcia, ogni tavolo che non decide, ogni ufficio che si sottrae alla formazione dei formatori avrà un contraltare preciso nelle parole del Vescovo di Roma.

Una conclusione che è un inizio
Leone XIV non è un taumaturgo. E i preti di Roma lo sanno bene. Molti di loro, però, guardano a questo Pontefice con la speranza che possa restituire respiro a una diocesi soffocata, non solo nella fede, ma prima ancora nelle relazioni, nell’aria che si respira tra confratelli. I sacerdoti non chiedono vescovi carrieristi o funzionari in talare: chiedono pastori capaci di ascoltare, uomini trasparenti, non personaggi arroganti in cerca di scalate personali. Vorrebbero bussare al Vicariato e trovarvi accoglienza fraterna, non il riflesso burocratico del peggiore sistema italiano, fatto di scartoffie e attese infinite. Leone XIV ha scelto un passo diverso dal predecessore: ascoltare, conoscere, prendersi tempo. L’agenda è fittissima, i collaboratori arrancano nel tentativo di collocare i tanti che chiedono di parlargli. In pochi mesi di pontificato non si può certo sanare un clima avvelenato in dodici anni. Ogni cosa ha il suo tempo.
Oggi, però, il Papa ha tracciato una prima linea. Ha chiesto lavoro: comune, competente, paziente. Ha rimesso al centro lo Spirito e la comunità, la Parola e il cammino. Ha ricordato che la Chiesa, se smette di essere sorgente, diventa cisterna: trattiene l’acqua, la fa evaporare, si svuota. Alla Samaritana Gesù non offrì un convegno, ma un’acqua capace di trasformare il cuore, e con esso le strade di un’intera città.
Roma ha ancora sete. E forse, oggi, al Laterano, qualcuno ha visto da dove ricominciare: lasciare la brocca delle rendite di posizione e tornare ai pozzi dove la gente va a vivere, non a verbalizzare. Se il Vicariato accetterà la cura, lo vedremo presto. Il Vescovo di Roma ha parlato chiaro. Alcuni carrieristi con zucchetto non hanno più scuse.
d.A.O.
Silere non possum