Città del Vaticano - Quando, martedì sera, sul volo verso Roma, Leone XIV ha risposto alle domande dei giornalisti che gli chiedevano un libro da leggere per “capire chi è Prevost”, non ha scelto un saggio politico, una biografia, un romanzo celebrativo. Ha indicato un piccolo volume di spiritualità: “La pratica della presenza di Dio” di fratel Lawrence. Un testo essenziale, quasi dimesso, scritto da “qualcuno che non firma neanche con il suo cognome”, come ha ricordato lo stesso Pontefice.
«Se volete sapere qualcosa di me, di quella che è stata la mia spiritualità per molti anni», ha spiegato, «leggete questo libro». In poche frasi ha offerto ai giornalisti - molti dei quali non pregano, alcuni non credono, quasi tutti guardano al Vaticano con le categorie del potere e dell’intrigo - la chiave più intima del suo modo di vivere il ministero: fidarsi di Dio in mezzo alle grandi sfide, dal Perù degli anni del terrorismo fino agli incarichi inattesi nella Curia.
Quella sera, in aereo, Leone XIV ha fatto con il mondo della stampa ciò che spesso fa un direttore spirituale con chi gli si avvicina sul serio.
Lo sguardo fisso su Gesù
Ricordo che quando incontrai per la prima volta quello che sarebbe poi diventato il mio padre spirituale, una delle prime cose che fece fu mettermi in mano un libro. «Leggi questo», mi disse. Non lo avevo ancora scelto come guida, non gli avevo ancora aperto davvero il mio cuore, ma quel gesto mi apparve subito come un modo per farsi conoscere da me. Non sul piano psicologico o caratteriale, ma sul piano spirituale. Come se mi dicesse: «Se entri in queste pagine, avrai un’idea della mia preghiera, di come io sto davanti a Dio».
Leone XIV, sul volo di ritorno, ha compiuto lo stesso gesto davanti a una platea molto diversa: professionisti dell’informazione che misurano ogni parola, abituati a tentare di decifrare i palazzi della Santa Sede come si leggono i corridoi di un Parlamento. Indicando un libro di un carmelitano scalzo, ha ricordato a tutti che il Papa prima di tutto è uomo di Dio, e che il suo compito principale non è gestire dossier ma parlare di Gesù. Se c’è un tratto che sta segnando questi mesi di Leone è proprio il riportare il nome di Gesù a risuonare nel cuore dei credenti. Ai giovani a Bkerké ha detto: «Mi avete chiesto dove trovare il punto fermo per perseverare nell’impegno per la pace. Carissimi, questo punto fermo non può essere un’idea, un contratto o un principio morale. Il vero principio di vita nuova è la speranza che viene dall’alto: è Cristo! Gesù è morto e risorto per la salvezza di tutti. Egli, il Vivente, è il fondamento della nostra fiducia; Egli è il testimone della misericordia che redime il mondo da ogni male. Come ricorda Sant’Agostino, riecheggiando l’apostolo Paolo, «in Lui è la nostra pace, e da Lui viene la nostra pace»».

Che libro è “La pratica della presenza di Dio”?
Per capire la portata di questo rimando, bisogna aprirlo, quel libro. “La pratica della presenza di Dio” non è un trattato sistematico, non è un manuale di ascesi. È un libretto composto da una prefazione, quattro Conversazioni e una serie di Lettere di Nicholas Herman, nato in Lorena, ex soldato e cameriere, entrato come fratello laico tra i Carmelitani scalzi di Parigi nel XVII secolo. La prefazione racconta la sua storia quasi con pudore: la conversione avviene attorno ai diciott’anni, in pieno inverno, davanti a un albero spoglio. Guardando quel tronco nudo, Lawrence intuisce che la primavera lo avrebbe di nuovo rivestito di foglie, fiori e frutti; da quella semplice scena nasce in lui una “alta visione della Provvidenza e della Potenza di Dio” che non lo abbandonerà più.
È qui il primo tratto di questa spiritualità: Dio non arriva attraverso esperienze straordinarie, ma attraverso un frammento di realtà osservato con serietà. Da quel momento fratel Lawrence decide di vivere come “alla presenza di Dio”: non per fuga dal mondo, ma per stare nel mondo in un altro modo.
Il libro raccoglie ciò che altri hanno visto e ascoltato in lui: appunti delle conversazioni con chi lo cercava per un consiglio, e lettere scritte a persone che avevano intuito la sua sapienza nascosta. “La pratica della presenza di Dio” non è quindi il progetto spirituale di un autore che si mette al centro della scena, ma il ritratto indiretto di un uomo che non voleva essere protagonista di nulla.
Ed è qui che si capisce perché Leone lo richiama proprio quando gli viene domandato: «Non ci ha mai detto nulla su cosa ha provato in Conclave quando è apparso chiaro cosa stava succedendo. Ci può dire qualcosa su questo?». Dopo aver citato questo testo, il Papa risponde: «Com’è stato? Mi sono arreso quando ho visto come stavano andando le cose e ho detto che questo sarebbe potuto diventare reale. Ho fatto un respiro profondo, ho detto: eccoci qua Signore, il capo sei tu, tu guidi la strada». E, poco prima, aveva accennato con ironia: «Giusto uno o due anni fa anch’io ho pensato di andare in pensione un giorno».
Il filo rosso: una vita trasformata in preghiera
Se si scorrono le Conversazioni, emerge subito il filo rosso del libro: la decisione radicale di riferire ogni cosa a Dio, anche la più banale. Fratel Lawrence insiste che il punto non è cambiare mestiere o cercare luoghi più “spirituali”; il punto è cambiare il modo in cui si vive ciò che già si è chiamati a fare.
Lui stesso racconta di essere stato destinato a lavori che non gli piacevano affatto: anni passati in cucina, o inviato in Borgogna e in Alvernia a comprare vino per il convento, nonostante fosse “goffo” e con problemi di deambulazione. Eppure, proprio lì, tra pentole, botti e conti, scopre che è possibile vivere “come se il tempo degli affari non fosse diverso dal tempo della preghiera”: ogni atto, se offerto e vissuto davanti a Dio, diventa luogo di comunione. E qui c’è la risposta alle altre domande: «Santo Padre, lei ha detto qualche mese fa che c’è molto da imparare nell’essere Papa. Ci può dire cosa sta imparando? Qual è la cosa più difficile nell’imparare ad essere Papa?» Leone non pensava di diventare Papa, ma anche questa scelta del Signore l’accoglie con lo spirito con cui Fratel Lawrence ha accolto tutti i “lavori” a cui veniva destinato.
Un altro tema che ritorna è la fiducia. Lawrence confessa di aver attraversato anni in cui era convinto di essere destinato alla dannazione. Nessun argomento teologico riusciva a rassicurarlo; e tuttavia decide di continuare ad amare Dio “qualunque cosa accada di me”, certo almeno di una cosa: di aver cercato di vivere per Lui fino alla morte. Questa scelta di non misurare la vita spirituale sul sentimento ma sulla fedeltà diventa la porta di una grande libertà interiore: alla fine capisce che il problema non era la colpa, ma la mancanza di fede nella misericordia.
Le Lettere sviluppano lo stesso nucleo in modo concreto. Fratel Lawrence propone un cristianesimo fatto di atti brevi: un pensiero che sale a Dio, un atto di adorazione muto, un semplice “Mio Dio, eccomi tutto tuo”. Suggerisce ai soldati di ricordarsi del Signore “anche con la spada in mano”; a una persona malata spiega che non si tratta anzitutto di chiedere la guarigione, ma la forza di sopportare per amore. E riassume tutto in una frase che potrebbe essere un manifesto: non esiste al mondo vita più dolce di una “continua conversazione con Dio”.
La sua è una spiritualità senza eroismi appariscenti, che diffida delle “devozioni banali” che cambiano ogni giorno e riportano sempre noi al centro. L’obiettivo non è accumulare pratiche, ma lasciarsi lentamente occupare da Dio, fino a poter dire - come scrive in una lettera - che gli risulta “altrettanto difficile non pensare a Dio quanto all’inizio gli era difficile pensarci”.

Perché questo libro dice qualcosa di Leone XIV
Se Leone XIV indica proprio questo libro per farsi “conoscere”, vuol dire che nel suo modo di pregare non c’è nulla di esoterico. Non propone un metodo complicato, non chiede esercizi per pochi. Dice piuttosto che lo si capisce - almeno in parte - seguendo il percorso di un laico del Seicento che ha imparato a stare con Dio nella vita ordinaria. Per un uomo che ha vissuto anni in Perù durante il terrorismo, questo punto non è marginale. La pratica della presenza di Dio non è la tecnica di chi cerca tranquillità interiore, ma la postura di chi attraversa contesti duri sapendo che il Signore non abbandona il luogo concreto in cui la storia lo ha messo. È una spiritualità che non censura la paura, ma la attraversa con un abbandono intelligente: “Non posso far nulla da me, Dio non mancherà di darmi la forza”, ripete fratel Lawrence quando prevede tempi di prova.
Qui la convergenza con lo stile di Prevost è evidente. Il Papa che cita questo libro davanti ai giornalisti non è un mistico estratto dal mondo, ma un uomo che ha imparato a decidere, a trasferirsi, ad assumere incarichi imprevisti a partire da una certezza: Dio è presente nella storia, anche quando la storia è fatta di violenza, attacchi terroristici, conflitti ecclesiali, fatiche di governo. C’è poi un altro tratto, tutt’altro che secondario: l’umiltà. Fratel Lawrence accetta di passare la vita in mansioni nascoste; è contento se può “raccogliere una pagliuzza da terra per amore di Dio”. Leone XIV sembra dire: se volete capire la mia idea di autorità, non cercate il trattato sul primato petrino, ma leggete la storia di uno che ha vissuto il potere come servizio senza ribalta. In un’epoca in cui anche nella Chiesa la tentazione della visibilità è forte, il Papa indica un cammino opposto: la santità non coincide con il successo del personaggio pubblico, ma con la capacità di lasciare che Dio occupi lentamente tutta la nostra vita.
Un invito che riguarda anche noi
Infine, quella indicazione data sul volo di ritorno non riguarda soltanto chi è chiamato a scrivere il profilo del nuovo Papa. Anzi, molti tra coloro che erano a bordo hanno già pubblicato libri, convinti di aver capito tutto di Leone XIV. Un atteggiamento che non è sfuggito al Pontefice che, con un sorriso amaro, ha osservato: «Non so se è ho detto “wow” ieri sera (ad Harissa). Nel senso che il mio viso è molto espressivo, ma sono spesso divertito da come i giornalisti interpretano il mio volto. È interessante, delle volte prendo delle grandi idee da voi, perché pensate che riuscite a leggermi nel pensiero o nel volto. Non avete sempre ragione». Un libro come questo, consegnato ai giornalisti, è un invito rivolto anche a chi legge le ricostruzioni dei cronisti, dunque a noi: mettere alla prova la propria idea di Chiesa e di fede con un testo che non parla di strategie, ma di presenza. In un tempo in cui diciamo spesso di “non avere tempo per pregare”, Lawrence mostra che il problema non è trovare spazi in più, ma riempire quelli che già abbiamo: la cucina, l’ufficio, la fila in posta, il traffico. È lì che, secondo lui, si gioca la pratica della presenza di Dio. E forse è lì che Leone XIV ha imparato a essere uomo di Dio prima ancora che vescovo: non separando il momento del culto dal momento della responsabilità, ma cercando di tenere insieme decisione e adorazione, governo e affidamento. Chi prenderà in mano “La pratica della presenza di Dio” dopo quel riferimento in conferenza stampa non troverà un autoritratto psicologico del Papa, né una chiave per decifrare i veleni di Curia. Troverà piuttosto un piccolo manuale di vita cristiana elementare, dove la fede non è una teoria ma un gesto continuo: alzare lo sguardo, ripetere un atto d’amore, non lasciare solo Dio nel groviglio delle nostre giornate.
Forse è questo che Leone XIV ha voluto dire, più che con molte analisi: se volete capire qualcosa di me - e, prima ancora, qualcosa del Vangelo - cominciate da qui, da un uomo che ha imparato a vivere ogni istante come presenza. Tutto il resto, potere compreso, viene dopo.
Marco Felipe Perfetti
Silere non possum