La morte di Alice ed Ellen Kessler, icone di un’epoca e volto sorridente della Germania del dopoguerra, è stata raccontata come l’ultima scena di un gemellaggio perfetto. «Danzano con la grazia e le loro gambe infinite nel cielo», ha scritto il quotidiano più letto del Paese, quasi volesse trasformare una decisione drammatica in un’immagine sospesa. Il 17 novembre, data scelta e preparata da tempo, le due sorelle hanno fatto ricorso al suicidio assistito, accompagnate da un giurista e da una dottoressa. Tutto ordinato, composto, discreto: un rito più che una fuga. Eppure, proprio questa compostezza solleva una domanda che non possiamo eludere: un gesto così curato può non lasciare un’ombra?
Il pensiero di Paul Ricœur aiuta a leggere questa vicenda senza giudizi affrettati. In Soi-même comme un autre ricorda che la persona non è mai un’isola, ma un’identità intessuta di relazioni: «il sé umano vive con l’altro e grazie all’altro». La sua definizione dell’etica – «Tendere alla vita buona, con e per l’altro, all’interno di istituzioni giuste» – restituisce un’immagine semplice e insieme esigente: la vita buona non si sottrae, non si chiude, non decide da sola. Si costruisce, passo dopo passo, persino quando il passo diventa incerto. Per questo Ricœur suggerisce che nessuno può dire davvero: «la mia vita è solo mia». Ogni esistenza è un racconto condiviso, e interromperlo non significa solo togliere un respiro, ma spezzare un filo, lasciare sospeso ciò che avrebbe potuto ancora maturare.
In questa luce risuonano anche le parole del Catechismo della Chiesa Cattolica: «Siamo amministratori, non proprietari della vita che Dio ci ha affidato. Non ne disponiamo». E ancora: il suicidio «spezza ingiustamente i legami di solidarietà». Non è un rimprovero alle Kessler, ma un invito a guardare con più delicatezza ciò che accade quando una vita viene interrotta: nessun gesto che tocca la radice dell’esistenza può essere neutrale, neppure quando è silenzioso, composto, privo di conflitto. La tradizione cristiana ha sempre affrontato il suicidio senza tabù, sapendo che dietro scelte così definitive spesso ci sono fragilità profonde, solitudini, dolori che chiedono compagnia più che soluzioni estreme. Non sorprende che Humanae Vitae ricordi un principio che vale per ogni decisione radicale sulla vita: «l’uomo non ha un dominio illimitato sul proprio corpo». Una frase che non condanna, ma protegge: l’esistenza non è un materiale da modellare, ma un dono da custodire. Le sorelle Kessler avevano programmato tutto: la data, i colloqui preliminari, il testamento, la volontà di essere sepolte insieme. Una scelta ordinata non basta però a renderla buona. Le forme armoniose con cui la loro morte è stata raccontata non cancellano la domanda più seria: chi è stato accanto a queste due donne, negli ultimi anni, quando «una morte dolce» è apparsa più desiderabile di una vita accompagnata? Forse il compito di una società giusta non è predisporre procedure perfette per morire, ma costruire legami che rendano ancora desiderabile vivere fino all’ultimo. Non è giudicare chi se ne va, ma esserci prima che qualcuno arrivi a pensare che la morte sia un gesto di ordine. In fondo, la storia delle Kessler non giudica nessuno: ci chiede solo, con dolcezza, di non lasciare nessuno solo davanti alla propria fragilità.
f.G.V.
Silere non possum