Napoli - Negli ultimi anni si è affermato, con forza crescente, un linguaggio pubblico che parla quasi esclusivamente di violenza maschile sulle donne, come se la violenza fosse unidirezionale, e il dolore potesse avere solo un genere. È una lettura parziale, che tradisce la complessità del reale e ignora ciò che la ricerca scientifica mostra ormai da decenni: anche gli uomini subiscono violenza, spesso psicologica, talvolta fisica, e quasi sempre nel silenzio e nella derisione.
I dati che non si vogliono leggere
Gli studi di Murray Straus e Richard Gelles, condotti sin dagli anni Ottanta alla University of New Hampshire, avevano già rivelato che la violenza domestica è spesso reciproca e che le donne, in molte forme di conflitto, possono essere autrici di aggressioni fisiche o psicologiche in misura paragonabile agli uomini.
Una meta-analisi di John Archer pubblicata su Psychological Bulletin (2000) conferma questa realtà: analizzando oltre 80 studi internazionali, Archer ha evidenziato che la violenza psicologica e quella minore fisica (spinte, schiaffi, lanci di oggetti) sono agite da entrambi i sessi, con una leggera prevalenza femminile nelle forme di controllo emotivo e manipolazione.
Ricerche successive, come quelle di Hines & Douglas (2010, Journal of Interpersonal Violence), hanno raccolto testimonianze dirette di uomini vittime di partner violente: umiliazioni, minacce di denunce false, isolamento sociale, distruzione della reputazione. In molti casi, il potere psicologico si trasforma in una strategia di dominio, basata sulla certezza che “nessuno crederà mai che è lei a picchiare lui”.
Secondo il CDC statunitense (National Intimate Partner and Sexual Violence Survey, 2015), circa un uomo su quattro ha subito violenza fisica da una partner nel corso della vita. In Regno Unito, l’Office for National Statistics(2022) stima oltre 700.000 uomini vittime di abusi domestici ogni anno. Numeri che smentiscono il mito di una violenza esclusivamente maschile e mostrano un panorama molto più complesso e disturbante.
Il muro del pregiudizio
Eppure, in Italia, questa realtà resta indicibile. Se un uomo dovesse chiamare la polizia per denunciare abusi psicologici o fisici da parte di una donna — che sia una compagna, una coinquilina o una sconosciuta — verrebbe deriso o ignorato. L’immaginario collettivo è ancora prigioniero di una massima antiquata e distorta che viene decantata anche nelle aule di tribunale da avvocati che hanno poca familiarità con l’italiano: “Le donne non si toccano nemmeno con un fiore.” Frase che nasce per difendere la dignità femminile, ma che oggi diventa un dogma ideologico che impedisce di riconoscere la violenza femminile.
Le stesse forze dell’ordine, spesso poco formate su queste dinamiche e talvolta caratterizzate da livelli di scolarizzazione modesti, reagiscono ancora con un riflesso culturale tossico: quello dell’uomo che deve proteggere la donna, come se questa fosse per definizione fragile e incapace di difendersi da sé.
Una percezione del tutto distante dalla realtà, perché oggi esistono donne fisicamente più forti di molti uomini e uomini più esili di molte donne.
A ciò si aggiunge un retaggio culturale che spinge l’uomo a non reagire neppure di fronte a violenze gravi, per timore di essere accusato di aggressione. E allora la domanda è inevitabile: se una persona riceve schiaffi, calci, pugni, provocazioni e controllo costante, perché nel caso di un uomo che si difende si parla di “legittima difesa”, mentre se a farlo è un uomo contro una donna si parla immediatamente di violenza?
In molti casi, basta che una donna dichiari di essere la vittima perché l’uomo venga immediatamente sospettato, processato, condannato. È una forma di pregiudizio istituzionale che mina la fiducia nella giustizia e incoraggia forme di manipolazione opportunistica: accuse strumentali in contesti di separazione, denunce usate come leva economica, o referti medici redatti sulla parola, senza riscontri obiettivi. Tutto questo produce una nuova asimmetria, più subdola, ma altrettanto violenta: quella tra chi è creduto per principio e chi è colpevole per pregiudizio.
A fomentare questo clima surreale contribuisce in modo decisivo anche la politica — soprattutto quelle forze che amano cavalcare l’onda del consenso immediato — arrivando perfino a proporre disegni di legge apertamente incostituzionali, nei quali si prevedono pene differenti a seconda del genere della vittima, come se il dolore umano potesse essere misurato in base al sesso di chi lo subisce.
La violenza invisibile
La violenza psicologica femminile assume forme particolarmente sofisticate: controllo affettivo, colpevolizzazione, minaccia di auto-lesione per ottenere obbedienza, isolamento sociale del partner, delegittimazione pubblica. In questo senso, molti studiosi parlano oggi di “intimate terrorism”, una forma di dominio che non ha genere ma struttura: il bisogno di possesso e di controllo sull’altro.
Negare questa realtà significa lasciare senza voce un’intera categoria di vittime, condannate al silenzio dalla vergogna e dalla paura del ridicolo.
Una cultura da cambiare
In una società che si proclama paritaria, il silenzio su questa violenza è un fallimento morale. Chi subisce deve poter denunciare senza paura, raccogliendo prove, referti, testimonianze, documentando ogni abuso. Non per vendetta, ma per giustizia. È tempo di riconoscere che la violenza non ha un solo volto né un solo sesso. Finché continueremo a difendere la metà delle vittime, la parola “uguaglianza” resterà una formula vuota.
d.J.A.
Silere non possum