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Città del Vaticano - Qualche sera fa, al termine di una delle dense giornate caratterizzate da Congregazioni e Novendiali, ci siamo trovati a cena con alcuni amici e un porporato con una lodevole esperienza pastorale, figura riservata e schiva dei riflettori, ma dotata di uno sguardo profondo e limpido sulla Chiesa. Il 7 maggio dovrà accedere in Sistina e questo compito "non lo fa dormire la notte". Mentre ceniamo osservando le luci e i tetti della Città Eterna, i discorsi si concentrano sul futuro ma anche all'esperienza del passato. Da qui possiamo scorgere la cupola di San Pietro stagliarsi nel cielo notturno, come un cuore pulsante nella penombra della storia. L’aria era mite, il vino generoso, e il tempo sembrava scorrere con una lentezza piena, come capita solo in certe sere romane. Si è parlato di di molte cose: della bellezza della Chiesa, della ricerca che i giovani fanno nonostante il racconto pessimista che ama fare qualcuno, della fatica e della grazia del ministero, dei silenzi che pesano e delle parole che liberano. Poi, terminata la cena ci accomodiamo su alcuni divanetti, il cardinale si lascia andare a una riflessione intensa e franca sul futuro della Chiesa e sull’elezione del prossimo Papa. Le sue parole, venate di preoccupazione ma anche di speranza, ci hanno colpito profondamente. Non erano dettate da risentimento, né da calcolo politico, ma da un amore autentico per la Sposa di Cristo e dal desiderio che essa ritrovi la sua voce più vera.

Fede profonda e fedeltà a Cristo

Nel discernimento del prossimo papa, la prima qualità imprescindibile deve essere una fede profonda, radicata nel Vangelocustodita nella Tradizione e saldamente ancorata all’ortodossia dottrinale. È estremamente pericoloso — e l’esperienza recente lo dimostra — eleggere un uomo che non si conosce realmente, o peggio ancora, che si conosce solo per apparenze esterne, magari per aver ricoperto incarichi di rilievo nella Curia Romana durante il Pontificato di Papa Francesco. Il prestigio di un ruolo non equivale alla trasparenza di un’anima. Durante il pontificato di Papa Francesco, molti cardinali, vescovi e teologi non hanno potuto esprimere liberamente il proprio pensiero o il proprio contributo autentico al dibattito ecclesiale, perché temevano ripercussioni. Una paura silenziosa ha serpeggiato nei sacri corridoi come nelle diocesi: quella di essere etichettati, isolati o rimossi. Questo clima ha inibito non solo il libero scambio teologico, ma ha anche impedito una reale conoscenza delle personalità ecclesiali: molti sono rimasti nell’ombra, altri si sono adattati superficialmente per convenienza o per sopravvivenza istituzionale. L’elezione di Papa Francesco nel 2013 ha mostrato i rischi di puntare su candidati conosciuti solo superficialmente o attraverso la lente deformante e spesso ideologica dei media. Ci si è affidati a una narrativa costruita, senza una reale conoscenza del cuore e della mente del candidato. È necessaria oggi una maggiore prudenza spirituale e un discernimento più profondo. San Gregorio Magno ammoniva: “La lingua del pastore deve essere vicina al cuore di Dio prima di aprirsi al popolo.” Se questo non accade, la guida si trasforma in potere, e il servizio in imposizione. Occorre un uomo di Dio, non un uomo di immagine. Un pastore che non cerchi l’acclamazione mediatica, né la popolarità ad ogni costo, ma che sappia resistere alla tentazione del consenso facile. Come ricordava Benedetto XVI: “Il vero pastore non misura la sua azione sul successo, ma sulla fedeltà alla verità.” Il nuovo papa dovrà avere il coraggio di dire “no” laddove tutti si attendono un “sì”, se questo “sì” comporta la deformazione del deposito della fede. Inoltre, la Chiesa ha bisogno di tornare a respirare nel pensiero teologico, nella ricerca sincera, nel dibattito leale. Un papa che abbia la forza e l’umiltà di permettere un autentico fermento teologico, senza reprimere o sospettare chi, pur rimanendo fedele alla Chiesa, esprime opinioni diverse su temi aperti. Durante l’attuale pontificato, molti teologi ortodossi sono stati marginalizzati o costretti al silenzio perché percepiti come “non allineati”. Ma la teologia non cresce sotto la paura, bensì nella libertà vigilata della comunione. Tuttavia, tale fermento non deve mai essere confuso con la confusione.

Il Papa non è un moderatore di dibattiti, ma colui che, come successore di Pietro, conferma i fratelli nella fede (Lc 22,32). Non può esercitare il suo ruolo come un “presidente” che governa per maggioranza, specie sulle questioni dottrinali. Come dichiarò San Giovanni Paolo II nella Dominus Iesus: “Il magistero non è superiore alla Parola di Dio, ma ad essa serve.” Il Papa non può reinventare la fede, ma deve custodirla, difenderla, proporla integralmente.

In questo senso, occorre un uomo che sia padre, non ideologo; testimone, non stratega; difensore del Credo, non alchimista dottrinale. Come affermava Papa San Paolo VI, “La Chiesa ha bisogno di pastori, non di capi; di maestri di verità, non di agitatori.” La Chiesa ha bisogno di un papa che non abbia paura della verità e che non faccia paura a chi cerca sinceramente la verità.

Un padre per tutti, non un giudice incattivito

La Chiesa ha bisogno di un Papa che sia, prima di tutto, padre, maestro, e segno di unità. Abbiamo attraversato anni in cui si è parlato molto di misericordia, ma l’esperienza concreta è stata, per molti, quella di una misericordia a geometria variabile, applicata con misura selettiva e, spesso, negata proprio a coloro che più l’avrebbero meritata: i sacerdoti, i religiosi, i vescovi.

Il pontificato di Papa Francesco si è presentato sin dall’inizio come un’“epoca della misericordia”, ma nei fatti ha mostrato una certa durezza nei confronti del clero, accentuata da un clima di sospetto generalizzato, quasi come se ogni sacerdote fosse colpevole a priori. Questo approccio ha prodotto insicurezza, paura, auto-censura, e un diffuso senso di disaffezione tra coloro che vivono e servono la Chiesa ogni giorno, spesso in condizioni difficili, spesso in silenzio, lontani dai riflettori. Come affermava San Giovanni XXIII: “Il Papa deve essere un padre, non un inquisitore”.

Purtroppo, troppe volte si è avuto l’impressione che Francesco agisse non da padre, ma da giudice. Non pochi hanno notato come molte delle sue decisioni siano apparse motivate da pregiudizi antichi, traumi personali, o da una profonda sfiducia verso la Curia romana e il clero accusato di essere "clericale e falso". In Argentina, da gesuita prima e da vescovo poi, Jorge Mario Bergoglio ha vissuto scontri, emarginazioni e tensioni che hanno segnato profondamente la sua personalità. Questo suo passato non è mai stato realmente elaborato né superato, e ha finito per influenzare il suo pontificato in modo determinante. È innegabile: molti dei suoi interventi e riforme sembrano più guidati da risentimento che da discernimento. La prova la troviamo nei numerosi motu proprio che stabilivano qualcosa, per poi smentirla dopo qualche tempo. Francesco aveva un risentimento verso ciò che lui percepiva come “vecchia Chiesa”, ma che in realtà è la Chiesa che lo ha cresciuto, formato, ordinato, accolto. È la Chiesa di sempre, la quale non cambia mai. La mancata riconciliazione con questo passato ha impedito a Papa Francesco di essere un vero padre per il clero: affettuoso ma esigente, misericordioso ma saldo, paterno e non punitivo. La figura del papa non può essere modellata sulle proprie ferite interiori o sui conflitti irrisolti. Non abbiamo bisogno di un uomo che “piaccia a tutti”, che insegua il consenso mediatico o i consensi interni a correnti ecclesiali, ma di un uomo capace di parlare con tutti senza essere ostaggio delle proprie ferite. Come affermava Benedetto XVI, “l’uomo di Chiesa non può essere schiavo delle sue emozioni o delle sue battaglie personali, ma deve essere libero nella verità e nella carità”.

In questi anni si è anche assistito a una rappresentazione del clero come entità profondamente malata, corrotta, decadente. Senza dubbio, esistono abusi, scandali, infedeltà, ma non si può ridurre l’identità del presbitero o del religioso a questo. In un mondo sempre più ostile alla vita consacrata e ai valori evangelici, ogni sacerdote che resta fedele alla sua vocazione, anche tra mille fragilità, è un segno di speranza. La vita religiosa non è mai stata facile; oggi è semplicemente eroica. La misericordia non è debolezza, ma forza che rialza, come ci ha insegnato Cristo nel Vangelo. Il Papa dovrebbe essere colui che rassicura il clero, ne guarisce le ferite, ne valorizza il servizio, e lo richiama sì alla fedeltà, ma non con la gogna pubblica o con atteggiamenti sprezzanti. Il Papa che siamo chiamati ad eleggere dovrà ricordare che la debolezza del clero non è diversa da quella di ogni uomo, e che la vera riforma non nasce dalla demolizione ma dalla paternità spirituale. Infine, la Chiesa ha bisogno di un uomo che non promuova fazioni, che non favorisca alleanze ideologiche o ecclesiali, ma che sappia ricomporre la comunione spezzata, guarire le fratture, e essere pastore di tutti, senza etichette, senza esclusioni, senza vendette. Come ammoniva San Leone Magno: “Chi presiede alla cattedra di Pietro deve unire, non dividere; deve edificare, non demolire; deve custodire, non sperimentare con leggerezza.”

Un vero riformatore, non un accentratore di potere

Durante il pontificato di Papa Francesco si è parlato, e molto, di riforme. La sua elezione nel 2013 fu salutata come l’inizio di un’era nuova: la promessa di una Chiesa rinnovata, più trasparente, più essenziale, più evangelica. E in effetti, Francesco ha promosso e realizzato numerosi cambiamenti strutturali. Ha riorganizzato i dicasteri, accorpato e moltiplicato uffici, modificato i nomi, cambiato responsabili. Ma a distanza di dodici anni è lecito chiedersi: che cosa è realmente cambiato? La sostanza è migliorata? O abbiamo assistito a una rivoluzione più mediatica che reale?

Molti problemi non solo non sono stati risolti, ma si sono aggravati. Le riforme volute da Papa Francesco si sono spesso ridotte a operazioni superficiali, buone per i titoli dei giornali, ma inefficaci nella pratica. Hanno generato confusione, incertezza, e in alcuni casi paralisi. Più che una riforma della Curia, si è assistito a una sua de-istituzionalizzazione: svuotamento di competenze, accentramento decisionale, e sospetto verso ogni forma di potere consolidato. Ma il risultato è stato devastante: il caos organizzativo e l’improvvisazione decisionale. Un caso emblematico è quello della Segreteria di Stato, storico cuore pulsante della diplomazia e del governo della Santa Sede. In nome della trasparenza e del risanamento, è stata progressivamente svuotata di prerogative, poteri e risorse economiche. Tuttavia, ciò che si è verificato non è stata una purificazione, ma uno spostamento del potere verso altre mani, spesso meno competenti e meno trasparenti. È mutato il contenitore, non il contenuto. Come ammoniva San Pio X: “La riforma delle istituzioni senza la riforma dei cuori è illusione”. Noi abbiamo bisogno di fermarci e pensare perchè esistiamo, per il bene della Chiesa, la sua libertà e la propria sopravvivenza o per assecondare i titoli dei settimanali?

In questi anni, Francesco ha mantenuto un ferreo controllo personale su ogni ambito della Curia. Ha scelto collaboratori — spesso in modo unilaterale — per poi limitarne drasticamente il margine d’azione. La fiducia si è rivelata apparente, e il governo della Chiesa si è trasformato in una gestione personalistica, dove tutto passava dalle mani del Papa. Questa prassi si è rivelata non solo poco evangelica, ma anche inefficiente.

Lo si è visto chiaramente durante i recenti ricoveri ospedalieri del Pontefice. Vari responsabili di dicasteri hanno confessato di essere stati impossibilitati ad agire, perché nulla poteva muoversi senza l’approvazione diretta del Papa. La Curia si è bloccata, incapace di esercitare una reale autonomia operativa. In uno Stato, come in una Chiesa, questo significa solo una cosa: fallimento nel governo.

Saper governare, infatti, non è sinonimo di controllare tutto. È, al contrario, l’arte di delegare, fidarsi, formare e lasciare spazio a chi ha le competenze. Se si nomina qualcuno alla guida di un dicastero, lo si fa perché lo si ritiene degno e capace: impedirgli di agire è un tradimento di quella fiducia. Il prossimo Papa dovrà essere un vero riformatore, ma non nel senso spettacolare del termine: dovrà avere una visione istituzionale, capace di distinguere tra visibilità e incisività, tra cambiamento cosmetico e rinnovamento vero.

Inoltre, la riforma ecclesiale deve avvenire in modo collegiale. Francesco ha parlato molto di sinodalità, ma nella pratica ha spesso deciso da solo, senza consultare adeguatamente i suoi collaboratori o il Collegio cardinalizio. Il numero di motu proprio promulgati unilateralmente è indicativo: decisioni centrali sulla vita della Chiesa universale sono state prese senza un reale confronto collegiale. Questa non è sinodalità, ma autoritarismo mascherato da innovazione.

Per quanto riguarda infine lo Stato della Città del Vaticano, la situazione è altrettanto delicata. La riforma giudiziaria e amministrativa operata da Francesco, pur animata da intenti di giustizia, ha prodotto una concentrazione anomala di potere nelle mani del pontefice stesso. Il Papa è diventato legislatore, esecutore, giudice ultimo, in una struttura che oggi fatica a rispettare i principi minimi dello Stato di diritto. Diversi osservatori internazionali hanno sollevato seri dubbi sul rispetto dei diritti fondamentali, evidenziando procedure arbitrarie, assenza di garanzie processuali, e un sistema giudiziario opaco. Il successore di Francesco dovrà avere il coraggio di tornare indietro su alcune decisioni che hanno compromesso la legalità e la credibilità della Santa Sede. Come fece San Giovanni Paolo II, dovrà ripristinare una divisione dei poteri, riaffermare il ruolo degli organismi tecnici e giuridici, e sottrarre alla discrezionalità pontificia ciò che invece deve essere regolato da norme stabili e trasparenti.

Come insegna la Tradizione, Ecclesia semper reformanda est — ma riformare la Chiesa non significa smantellarla, né governarla da solo, né inseguire il plauso dei giornalisti. Significa, piuttosto, servirla con umiltà, competenza e fedeltà alla sua missione soprannaturale.

d.C.P.
Silere non possum