Ragazzetti che si scattano selfie accanto a cardinali e vescovi. Religiosi e prelati trasformati in strumenti per “accreditarsi”: il selfie con loro finisce subito online, come prova del fatto che si “conta qualcosa”. Preti venuti dalle più remote parti del mondo che partecipano all’incontro del clero romano con il Papa unicamente per riuscire a ottenere una foto con il neo eletto. Seminaristi che sgomitano per recitare il Rosario in piazza San Pietro mentre il Papa sta morendo, solo per essere lì, immortalati nel momento giusto.
A prima vista, per un occhio inesperto, sembrerebbero semplici testimonianze di devozione o di momenti significativi. Ma a guardar meglio, raccontano altro. Raccontano una fame. Fame di riconoscimento, di potere riflesso, di esistere attraverso l'immagine, di sentirsi qualcuno. Una fame di appartenenza ai circoli che contano.
Anche per quanto riguarda una parte del clero, non si tratta più del tempo del silenzio, della riservatezza, della custodia di sé. Ora si cerca la luce dei riflettori. E anche in ambito ecclesiale, questa logica mondana ha fatto breccia. Si è introdotta nel linguaggio, nei gesti, perfino nelle relazioni. C’è chi colleziona selfie con prelati come fossero reliquie, e chi misura la propria rilevanza sulla base dei titoli ricevuti: canonico, monsignore, cerimoniere, consultore, commendatore. L’apparire ha sostituito l’essere, e il sacro è diventato scenografia.
Il volto psicologico: tra narcisismo e bisogno di legittimazione
Nel suo celebre libro "Il narcisismo: un’introduzione" (Raffaello Cortina Editore, 2014), il filosofo e psicoanalista Paul Verhaeghe spiega come l’individuo contemporaneo abbia interiorizzato il bisogno di essere riconosciuto costantemente, fino a costruire la propria identità sulla base di ciò che appare. La figura del sacerdote o del laico “che conta sui social”, che rincorre la foto con il porporato, che si filma circondato da centinaia di giovani che lo acclamano, non è altro che una variante ecclesiale del narcisismo contemporaneo: essere visti con il potente per esistere.
La psicologa americana Jean Twenge, nel suo The Narcissism Epidemic (2009), descrive una vera e propria “cultura dell’autocelebrazione” che ha invaso ogni sfera della vita, compresa quella religiosa. Anche nella Chiesa, il valore spirituale rischia sempre più spesso di essere subordinato alla visibilità sociale. Conta di più un’adorazione eucaristica presieduta dal prete tiktoker e affollata di giovani — utile da postare sui social — che quella silenziosa e raccolta vissuta in seminario con la comunità vocazionale. La prima fa rumore, quindi esiste; la seconda è nascosta, quindi ignorata.
Eppure, qualcuno ammoniva: «Ma tu, quando preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,6).
L’ambizione spiritualizzata: il desiderio di titoli e nomine
Accanto al culto dell’immagine, vi è il culto del titolo: canonicati, onorificenze, monsignorati, incarichi diocesani, riconoscimenti pontifici. Una forma di arrivismo mascherata da spirito di servizio. Tomáš Halík, sacerdote e psicologo ceco, nel suo "Pazienza con Dio" (2010), parla dell’“idolatria del riconoscimento ecclesiale” come uno dei grandi rischi attuali: si cerca una missione solo se essa comporta un titolo, una veste rossa, una poltrona.
Spesso, questa dinamica si nutre di una profonda insicurezza identitaria: chi non si sente riconosciuto per ciò che è, cerca titoli o fotografie che lo legittimino davanti agli altri. La nomina diventa una stampella del Sé, non un mezzo per servire la Chiesa. Si potrebbe parafrasare il celebre detto di Henri Nouwen nel suo "The Wounded Healer": “Alcuni si inginocchiano davanti al Santissimo, ma solo se a guardarli c’è un monsignore dietro”.
Quando il potere diventa oggetto di desiderio
L’ossessione per i luoghi esclusivi, per i contatti “alti”, per le cene con il prete che conta o l’ambasciatore, il politico, altro non è che una forma di “feticcio spirituale”: si vuole consumare il sacro per sentirsi parte di un’élite. Ma come ogni pornografia, questa logica consuma chi la esercita e svuota il contenuto dell’esperienza.
Il sociologo Pierre Bourdieu, parlando del campo religioso, ha introdotto il concetto di capitale simbolico: un patrimonio di prestigio e legittimazione che alcuni cercano di accumulare avvicinandosi ai centri di potere ecclesiastico. Questo meccanismo appare oggi in modo particolarmente evidente nell’uso dei social network da parte di certi soggetti – laici o preti poco importa – che puntano tutto sulla visibilità: la foto con il Papa, il selfie nella Cappella Sistina, il baciamano al cardinale influente… ognuno di questi gesti diventa una moneta simbolica da esibire per accrescere la propria influenza.
Un malessere ecclesiale più profondo
Il problema non è solo psicologico o sociologico. È spirituale. È la prova che, come denunciava Papa Francesco, la Chiesa rischia di diventare “una ONG assistenziale ma non la Chiesa”, dove la missione è sostituita dalla gestione, la grazia dal protocollo, la profezia dalla carriera.
Se nelle nostre comunità – e persino nei seminari – formiamo chierici e laici all’apparenza anziché all’autenticità, all’arte di mostrarsi piuttosto che alla fatica dell’essere, alla ricerca di relazioni strategiche anziché a legami fondati sulla verità e sulla carità, allora è segno che abbiamo smarrito la bussola. In nome di una vaga “collaborazione”, abbiamo spesso ceduto il passo a un clericalismo laicizzato, dove l’apparire è diventato la nuova liturgia, e l’immagine ha preso il posto della sostanza.
Una proposta per disintossicarsi
Occorre una riforma del cuore prima ancora che delle strutture. Serve il coraggio di chiamare per nome questi comportamenti e smascherare le dinamiche di potere spiritualizzato che infestano le diocesi, i presbiteri, i seminari, le curie, i movimenti ecclesiali.
«Come Cristo ha amato con cuore di uomo, voi siete chiamati ad amare con il Cuore di Cristo!» ha detto Leone XIV ai seminaristi durante il loro Giubileo.
E ha spiegato: «Ma per apprendere quest’arte bisogna lavorare sulla propria interiorità, dove Dio fa sentire la sua voce e da dove partono le decisioni più profonde; ma che è anche luogo di tensioni e di lotte, da convertire perché tutta la vostra umanità profumi di Vangelo. Il primo lavoro dunque va fatto sull’interiorità. Ricordate bene l’invito di Sant’Agostino a ritornare al cuore, perché lì ritroviamo le tracce di Dio. Scendere nel cuore a volte può farci paura, perché in esso ci sono anche delle ferite. Non abbiate paura di prendervene cura, lasciatevi aiutare, perché proprio da quelle ferite nascerà la capacità di stare accanto a coloro che soffrono. Senza la vita interiore non è possibile neanche la vita spirituale, perché Dio ci parla proprio lì, nel cuore. Di questo lavoro interiore fa parte anche l’allenamento per imparare a riconoscere i movimenti del cuore: non solo le emozioni rapide e immediate che caratterizzano l’animo dei giovani, ma soprattutto i vostri sentimenti, che vi aiutano a scoprire la direzione della vostra vita. Se imparerete a conoscere il vostro cuore, sarete sempre più autentici e non avrete bisogno di mettervi delle maschere. E la strada privilegiata che ci conduce nell’interiorità è la preghiera: in un’epoca in cui siamo iperconnessi, diventa sempre più difficile fare l’esperienza del silenzio e della solitudine. Senza l’incontro con Lui, non riusciamo neanche a conoscere veramente noi stessi. Se vi prenderete cura del vostro cuore, con i momenti quotidiani di silenzio, meditazione e preghiera, potrete apprendere l’arte del discernimento. Anche questo è un lavoro importante: imparare a discernere. Quando siamo giovani, ci portiamo dentro tanti desideri, tanti sogni e ambizioni. Il cuore spesso è affollato e capita di sentirsi confusi. Invece, sul modello della Vergine Maria, la nostra interiorità deve diventare capace di custodire e meditare. Capace di symballein – come scrive l’evangelista Luca (2,19.51): mettere insieme i frammenti. Guardatevi dalla superficialità, e mettete insieme i frammenti della vita nella preghiera e nella meditazione, chiedendovi: quello che sto vivendo cosa mi insegna? Cosa sta dicendo al mio cammino? Dove mi sta guidando il Signore?»
Solo in questo modo potremo diventare Discepoli, non cortigiani. Profeti, non influencer ecclesiali.
d.G.S.
Silere non possum