Negli ultimi anni il lessico pubblico si è riempito di espressioni come cancel culture, “guerra contro il passato”, “abbattimento dei simboli”. Non è solo una moda linguistica. È un modo preciso di rapportarsi alla storia: invece di interpretare il passato, lo si processa; invece di comprenderlo, lo si trasforma in un imputato collettivo.
Il sociologo Frank Furedi, in La guerra contro il passato, descrive bene questo fenomeno: quando si comincia a incolpare il passato e a scagliarsi contro figure storiche che fino a poco tempo fa erano rispettate, si sposta l’attenzione dalle sfide reali del presente al regolamento dei conti con ieri. Di fatto, scrive, è stata dichiarata «una guerra contro il passato».
Questa guerra non è solo un dibattito accademico. Assume forme estremamente concrete: monumenti vandalizzati perché ricordano personaggi giudicati oggi “problematici”; musei imbrattati, come nel caso del Charles Dickens Museum deturpato da scritte che bollavano lo scrittore come “razzista”, con l’autore del gesto orgoglioso di aver “fatto giustizia” su un morto dell’Ottocento; programmi scolastici di storia trasformati in un campo di battaglia ideologico, dove ciò che conta non è più capire che cosa è accaduto, ma usare il passato per rafforzare identità politiche presenti. Furedi mostra come tutto questo sia reso possibile da un clima culturale dominato dal presentismo: una società che vive in un eterno presente, che ha perso il senso della continuità storica, tratta il passato come una fase primitiva, da cui prendere solo prove di oppressione. Anche concetti come “ideologia dell’anno zero” e “politica dell’identità” vanno in questa direzione: si invita a rompere con le origini perché sarebbero tossiche, si alimenta una narrazione unilaterale del passato come catena ininterrotta di violenze. In questo scenario, la memoria non è più maestra di vita, ma diventa un archivio di colpe da sanzionare. Il passato non è una storia da capire, ma un atto d’accusa.
L’anno zero in parrocchia: quando la Chiesa replica i meccanismi che critica
Di fronte a queste derive, nel mondo cattolico non mancano voci che criticano la cancel culture, il vandalismo contro le opere d’arte, la riscrittura ideologica dei programmi scolastici. E tuttavia, se guardiamo con onestà alle dinamiche interne alle nostre comunità, dobbiamo riconoscere una realtà scomoda: molto di ciò che contestiamo alla società lo stiamo praticando al nostro interno. L’atteggiamento dell’“anno zero”, ad esempio, è riconoscibile in molti cambi di governo ecclesiale: ci sono priori che, appena eletti, fanno capire che il predecessore deve andarsene: non solo lasciare l’ufficio, ma fisicamente allontanarsi dal monastero, come se la sua presenza fosse un ostacolo; in alcune comunità, specie dove già si registra una crisi vocazionale crescente, la prima operazione del nuovo corso sembra essere la rimozione del padre che ha fondato o guidato; la narrazione implicita è chiara: “da oggi comincia la vera storia; prima, al massimo, un passato problematico da correggere”.
In molti ambienti ecclesiali si sta instaurando una logica in cui il passato recente della comunità viene delegittimato, non attraverso un vero discernimento, ma mediante campagne di delegittimazione personale. Il linguaggio è quello tipico della cancel culture: si costruisce un racconto che rende il predecessore “non più proponibile”, “non più affidabile”, “non più accettabile”. Si parla di “abusi”, “interpretazione errata del carisma”, “autorità male esercitata”, ecc… Si diffondono voci, ricostruzioni studiate a tavolino, bugie e allusioni.

L’arma dell’accusa generica di “abusi”
Il punto di massima somiglianza tra la guerra culturale contro il passato e certe dinamiche ecclesiali è l’uso indeterminato e onnicomprensivo della parola “abusi”. Nella società civile, l’arma mediatica è spesso il marchio di razzismo, maschilismo, sessismo e applicato in modo retroattivo, con categorie nate oggi per giudicare epoche in cui non esistevano. Nella Chiesa, oggi, accade qualcosa di analogo: è sufficiente evocare “gli abusi” - senza specificare di che tipo, in quale periodo, con quali fatti - per marchiare a fuoco una persona; spesso non si conoscono prove, non si indicano episodi precisi, non si offre all’interessato un vero contraddittorio; si imbastiscono procedimenti sommari che giuridicamente non sono nemmeno procedimenti: atti informali, indagini “interne”, decisioni amministrative opache, che di fatto distruggono una reputazione senza possibilità di difesa. Il risultato è un clima giustizialista: basta che ci sia un’ombra non meglio precisata perché un sacerdote, un superiore, un fondatore sia sospeso, allontanato, espulso, senza che la comunità sappia davvero che cosa è accaduto. In teoria si agisce per “tutelare le vittime”; in pratica, spesso, si usa la categoria dell’abuso come clava per regolare altri conti: conflitti di potere, divergenze teologiche, lotte politiche e antipatie personali. Così, mentre critichiamo le demolizioni di statue nelle piazze, nella Chiesa demoliamo persone con la stessa leggerezza con cui qualcuno imbratta un monumento: si colpisce perché quella figura “simbolizza” qualcosa che oggi non sopportiamo più, e tanto basta.
“A Bose in atto un parricidio”: il caso emblematico
La vicenda di Bose è stata, da questo punto di vista, esemplare. In quella comunità, pochi membri, ma ben collocati, hanno progressivamente lavorato per esautorare il fondatore, attorno al quale si erano accumulate tensioni, divergenze, critiche. Il conflitto, da questione interna da governare con prudenza, è diventato un vero e proprio processo al padre. Non a caso, in una delle puntate dell’inchiesta di Silere non possum, il titolo fu: «A Bose in atto un parricidio». Non era solo una formula forte: era la descrizione di un meccanismo antropologico profondo. Silere dimostrò, con documenti alla mano, che nel Decreto della Segreteria di Stato, peraltro, non vi era alcuna accusa o prova che giustificasse un trattamento del genere. Sigmund Freud, in Totem e tabù, ha elaborato il famoso mito dell’orda primitiva: i figli, scacciati dal padre tirannico che monopolizza le donne del clan, si uniscono, un giorno, si ribellano, uccidono e mangiano il padre, appropriandosi simbolicamente della sua forza. Dopo il parricidio, però, non nasce una libertà pacificata: subentra il rimorso, la nostalgia, la necessità di creare tabù e divieti per tenere a bada il desiderio che ha portato al delitto. Freud nota che il padre, una volta ucciso, diventa «più potente del vivo»: l’odio si trasforma in idealizzazione postuma, in un’“assoluta sottomissione” a quel padre primitivo. Applicato alle nostre comunità, questo schema - pur con tutte le distanze - è illuminante: una parte della comunità si coalizza contro il fondatore o il superiore; lo mette in minoranza, lo espelle, lo trasforma in capro espiatorio di tutti i problemi; ma, una volta “eliminato”, il gruppo non diventa realmente maturo: resta ossessionato dal padre cacciato, continua a definirsi in contrapposizione a lui. Il parricidio simbolico non libera: inchioda. È quello che accade quando un monastero o una comunità o un movimento, invece di affrontare con lealtà le proprie crisi, preferisce costruire una narrazione in cui tutto il male è concentrato in una persona, da rimuovere per iniziare un anno zero.
Semel abbas, semper abbas: la sapienza monastica contro la cultura dello scarto
La tradizione monastica, e in particolare quella benedettina, possiede un anticorpo prezioso contro questa deriva: “Semel abbas, semper abbas”. Una volta che un monaco è stato chiamato a essere Abate, resta padre della comunità per sempre, anche se non governa più. La storia della Chiesa conosce molti esempi di: abati che hanno guidato un monastero per tutta la loro esistenza per decenni; abati che, giunti all’età o in situazioni difficili, hanno rinunciato al governo, ma sono rimasti in comunità come presenza discreta, memoria, consiglio; comunità che, pur attraversando conflitti forti, hanno custodito il legame con il loro padre, distinguendo tra le sue scelte correggibili e la gratitudine oggettiva per il bene ricevuto. Oggi, invece, anche in diversi monasteri che si dicono fedeli a san Benedetto, questa logica viene stravolta: l’abate non rieletto viene trattato come un problema da eliminare: lo si manda lontano, lo si isola, si fa di tutto perché non abbia più voce, la sola sua presenza viene percepita come “ingombrante”, come se la comunità non fosse capace di reggere la coesistenza di una paternità emerita e di una paternità regnante.
In un monastero che ha una incredibile crisi vocazionale ed ha preso negli ultimi anni una deriva spiritualistica, il priore generale ha recentemente fatto trovare sotto alla porta del priore emerito una lettera con la quale lo invitava a lasciare il monastero. Quest’uomo ha dovuto, alla sua età, rivolgersi ad un santo vescovo che lo ha accolto. Tutto questo, però, non è affatto normale.
È singolare che proprio dove si sarebbe chiamati a custodire la memoria della tradizione, si pratichi una forma di cultura dello scarto verso chi ha regnato prima. È la versione ecclesiale della cancel culture: non si abbattono statue di marmo, ma si rimuovono padri viventi.
Presentismo ecclesiale: giudicare ieri con le categorie di oggi
Un altro tratto comune tra la guerra contro il passato e certe dinamiche nella Chiesa è il giudizio anacronistico. Furedi, parlando del presentismo, nota che la società occidentale ha iniziato a trattare le epoche passate come “versioni iniziali del presente”, giudicando persone vissute secoli fa come se avessero i nostri strumenti e le nostre sensibilità. Allo stesso modo, nella Chiesa, si rileggono periodi interi della vita di una comunità con criteri che: non esistevano allora, né giuridicamente né culturalmente; vengono applicati retroattivamente per dimostrare che “tutto era sbagliato”; alimentano una narrazione in cui il passato è solo un elenco di “abusi sistemici”, senza distinguere tra luci e ombre. Certo, è giusto riconoscere che in certe stagioni vi siano stati atteggiamenti e prassi che oggi comprendiamo come problematici. Ma altra cosa è usare questa consapevolezza come pretesto per cancellare tutto: persone, opere, frutti spirituali. Una comunità che giudica solo con categorie nate ieri perde la capacità di leggere la propria storia nella logica della Provvidenza: Dio ha agito anche attraverso uomini limitati, dentro strutture imperfette. Chi cancella i padri smarrisce anche il senso di come lo Spirito lavora nel tempo.

Una conversione della memoria: oltre il parricidio e oltre la rimozione
Se come Chiesa vogliamo essere credibili, anche quando giustamente critichiamo la cancel culture e difendiamo la memoria storica nella società, dobbiamo prima cominciare da noi stessi. Non basta dire che vandalizzare statue o imbrattare musei è sbagliato: occorre interrogarsi su come trattiamo i nostri padri. Alcuni passaggi sembrano indispensabili. Dobbiamo recuperare una grammatica della gratitudine: anche quando un fondatore o un superiore ha commesso errori reali, la comunità deve saper dire cosa ha ricevuto attraverso di lui; dobbiamo assicurare procedure giuste, soprattutto quando si evocano “abusi”: trasparenza, contraddittorio, possibilità di difesa, chiarezza dei fatti. La tutela delle vittime non viene dalla giustizia sommaria, ma dalla verità piena; bisogna rifiutare l’illusione dell’anno zero ecclesiale: ogni riforma autenticamente cattolica non si fonda sulla cancellazione, ma sulla purificazione e sulla continuità e dobbiamo custodire la figura dell’abate emerito, del superiore che ha lasciato, del fondatore invecchiato, del parroco anziano: non come reliquie ingombranti, ma come testimoni viventi di una storia che ci precede.
La Chiesa non può essere una comunità di orfani che hanno ucciso i padri né un popolo senza memoria schiacciato da un presente ideologico.
Recuperare il principio “Semel abbas, semper abbas”, in senso più ampio, significa proprio questo: riconoscere che la paternità non è una funzione a tempo determinato, ma un dono che ci precede e ci accompagna. Senza padri, non ci sono figli; senza memoria, non c’è futuro. E una Chiesa che pratica, al proprio interno, il parricidio, rischia di perdere entrambe le cose.
M.P. e p.R.M.
Silere non possum