Nel 2025 l’Italia occupa il 49° posto su 180 nella classifica mondiale della libertà di stampa stilata da Reporters Without Borders, segnando un ulteriore arretramento rispetto al 2024, quando era al 46° posto. Si tratta del peggior posizionamento tra i Paesi dell’Europa occidentale: mentre Francia, Germania e le nazioni scandinave si collocano stabilmente ai vertici della classifica, l’Italia si distingue in negativo.

Le ragioni di questo declino sono molteplici e strutturali. I giornalisti continuano a subire minacce, intimidazioni e violenze, talvolta da parte delle stesse forze dell’ordine, il cui comportamento nei confronti della stampa appare sempre più spesso inappropriato: si registrano episodi di sequestri arbitrari, atteggiamenti ostili, uso eccessivo della forza e tentativi di ostacolare l’attività giornalistica. Non meno preoccupante è il ruolo della magistratura, che in più occasioni ha autorizzato provvedimenti lesivi della riservatezza delle fonti, minando uno dei principi fondamentali della libertà di stampa. A questo si aggiunge un rapporto ambiguo e opaco tra alcuni magistrati e giornalisti: esistono collaborazioni informali, del tutto illecite, che favoriscono la diffusione pilotata di notizie funzionali a specifiche inchieste. Chi si sottrae a questa logica, rifiutando di essere strumento del potere giudiziario, rischia di diventare bersaglio di ritorsioni.

Infine, pesano le ingerenze della politica, il ricorso sistematico a querele temerarie e l’uso – tanto legale quanto illecito – di strumenti di intercettazione. In molti casi, anche le intercettazioni autorizzate hanno come unico obiettivo quello di individuare le fonti dei giornalisti, compromettendo gravemente il diritto all’informazione. Ancora più grave è l’impiego di software spia, che consente accessi illegittimi e silenziosi ai dispositivi dei cronisti. In questo contesto, parlare di “libertà di stampa” rischia di diventare un esercizio retorico, utile solo a chi vuole mantenere le apparenze senza affrontare il cuore del problema.

Attacchi istituzionali: censura e interferenze

Emblematico del rapporto distorto tra politica e informazione in Italia è il ruolo che il Governo della Repubblica continua a esercitare sulla RAI, la radiotelevisione pubblica nazionale. Un’influenza che si manifesta attraverso nomine politiche, tagli mirati ai programmi scomodi e ritorsioni sempre più evidenti nei confronti delle voci indipendenti. Il caso del giornalista Gennaro Sangiuliano, nominato ministro della Cultura nel governo Meloni, resta uno degli esempi più imbarazzanti.

Sangiuliano, già direttore del TG2, si è distinto negli anni per una comunicazione approssimativa, un’incapacità evidente nel parlare in lingua italiana e frequenti scivoloni linguistici. È arrivato a occupare un ruolo di vertice nel settore culturale pur essendo, con ogni evidenza, incapace di articolare un discorso compiuto in un italiano corretto. La sua nomina ha suscitato più di un imbarazzo, non solo per le note lacune intellettuali, ma anche per il contesto in cui si è poi consumata la sua uscita di scena: uno scandalo a sfondo personale, innescato da una ricattatrice, ha portato alle dimissioni del ministro. Ma il vero scandalo precede la caduta: è nella nomina stessa.

L’elenco delle sue gaffe è ormai un florilegio tragicomico. Ad agosto 2024, sul suo profilo Instagram è apparso un post dedicato alle celebrazioni per i 2500 anni dalla fondazione di Napoli, accompagnato però da un’immagine che parlava — testualmente — di “due secoli e mezzo di Napoli”. Nel giugno dello stesso anno, al festival letterario Taobuk di Taormina, dichiarava che Cristoforo Colombo avrebbe circumnavigato la Terra nel 1492 “sulla base delle teorie di Galileo Galilei”, ignorando che Galileo nacque nel 1564, oltre settant’anni dopo. In aprile, durante la presentazione della nuova passeggiata archeologica a Roma, aveva collocato Times Square… a Londra. Ma la gaffe più memorabile resta forse quella del Premio Strega 2023. Intervenendo in diretta su Rai 3, il ministro fu invitato da Geppi Cucciari a rivolgere un appello alla lettura. Rispose così: “Voglio dire di leggere, che è una cosa fondamentale, molto bella, che ti arricchisce, che ti fa vivere dei momenti esistenziali. Ho ascoltato le storie che sono espresse in questi libri che sono finalisti questa sera: sono tutte storie che ti prendono, che ti fanno riflettere. Ecco: proverò a leggerli”. Alla replica imbarazzata della conduttrice – “Ah, non li ha letti?” – il ministro tentò di correggersi: “Sì, li ho letti perché ho votato, però voglio, come dire, approfondire questi volumi”. La comica non perse il colpo: “Cioè, oltre alla copertina. Un bell’applauso al nostro ministro”.

Al di là del sarcasmo, questa vicenda solleva un interrogativo più profondo: che tipo di cultura politica, e culturale in senso proprio, rappresenta la nomina di figure simili? E cosa dice tutto questo del mondo del giornalismo italiano, da cui Sangiuliano proviene?

Il punto non è solo l’inadeguatezza personale, ma il sistema che lo ha prodotto e sostenuto: un giornalismo spesso genuflesso, addomesticato, pronto a fungere da trampolino di lancio per ambizioni politiche, anche a costo di sacrificare credibilità, competenza e, soprattutto, indipendenza.

Minacce digitali: spionaggio ai danni dei giornalisti

Tra il 2023 e il 2024, i telefoni di alcuni giornalisti di Fanpage.it, tra cui Francesco Cancellato e Ciro Pellegrino, sono stati oggetto di sorveglianza attraverso lo spyware Paragon, un software intrusivo utilizzato per monitorare comunicazioni e attività private. Il fatto ha costretto la testata a interrompere ogni rapporto contrattuale con il Governo italiano.

In un qualsiasi altro Stato democratico, un simile scandalo avrebbe provocato una crisi istituzionale, con dimissioni immediate, inchieste giudiziarie e una mobilitazione in difesa della libertà di stampa. In Italia, al contrario, la notizia è stata silenziata: nessuna inchiesta giornalistica, ben pochi editoriali indignati, nemmeno da parte delle testate in cui lavorano colleghi degli stessi giornalisti spiati. Questo silenzio è forse il dato più inquietante dell’intera vicenda. Quando la violazione delle libertà fondamentali non genera più reazioni, ma solo rassegnazione o complicità, non è più solo la stampa a essere sotto sorveglianza: è la democrazia stessa a essere in pericolo.

A giugno 2025 sono emerse nuove indagini: sette telefoni, incluso quello di Roberto D’Agostino (Dagospia), risultano hackerati, e l’intelligence italiana veniva autorizzata a utilizzare Paragon su presunti terroristi o mafiosi, ma senza garanzie trasparenti.

Un’Europa in regressione: il report “dismantler”

Nel marzo 2025 il Civil Liberties Union for Europe ha inserito l’Italia tra i “cinque paesi dismantler” dell’UE – insieme a Bulgaria, Croazia, Romania e Slovacchia – per l’erosione della separazione dei poteri, interferenze politiche nel sistema giudiziario e attacchi al pluralismo mediatico. In particolare, per l’influenza sulla RAI e l’uso di SLAPP per intimidire voci scomode.

Perché tutto questo importa

Il progressivo tentativo di verticalizzare l’informazione — attraverso leggi restrittive, nomine politiche, tagli selettivi e perfino forme di sorveglianza illegittima — compromette uno dei cardini essenziali della democrazia: la funzione critica e di controllo esercitata dal giornalismo libero.

Oggi i reporter in Italia operano sotto una duplice minaccia: da un lato quella dello Stato, che esercita pressioni più o meno esplicite; dall’altro quella della criminalità organizzata, i cui metodi trovano sempre più spazio anche nelle stanze del potere istituzionale. Il basso posizionamento dell’Italia nel ranking di Reporters Without Borders è un sintomo eloquente di questa tensione strutturale.

Non sempre si ha a che fare con criminali nel senso tecnico del termine: la commistione tra potere politico e logiche mafiose è più sottile, ma non meno pericolosa. Ci sono dirigenti, amministratori e parlamentari che agiscono con metodi intimidatori, esercitando pressioni, diffondendo false informazioni, colpendo economicamente o legalmente chi fa informazione scomoda. L’apparato formale della democrazia resta intatto, ma la sua sostanza si consuma nell’abuso sistematico di potere.

Alcune domande aperte

A rendere ancora più grave questo quadro è il fatto che, almeno sulla carta, esistono già strumenti giuridici pensati per tutelare l’indipendenza dell’informazione. È il caso dell’European Media Freedom Act, approvato nel 2024 ed entrato in vigore nel 2025, che si propone di proteggere i giornalisti da ingerenze politiche, sorveglianza illecita e pressioni economiche. Il regolamento – che sarà pienamente vincolante anche per l’Italia entro la fine del 2025 – vieta l’uso di spyware contro i cronisti (salvo casi eccezionali), impone trasparenza sulla proprietà dei media, regolamenta la distribuzione della pubblicità statale e istituisce un Comitato europeo di vigilanza. Ma il problema, in Italia, non è tanto l’assenza di norme, quanto la sistematica elusione del loro spirito. Si continua ad aggirare la sostanza delle leggi attraverso una macchina di potere che premia il conformismo e penalizza l’autonomia, con tecniche sempre più sofisticate ma radicate in una cultura politica che non ha mai realmente digerito il concetto di libertà di stampa.

Siamo di fronte a un bivio. L’avanzata del controllo politico sulle istituzioni pubbliche, la concentrazione editoriale, il silenzio complice su episodi di spionaggio digitale e la progressiva normalizzazione dell’intimidazione nei confronti dei giornalisti delineano uno scenario in cui l’informazione libera non è più garantita, ma tollerata — finché non disturba troppo. Eppure, a rendere tutto questo ancora più inquietante è il comportamento di chi dovrebbe tutelare i diritti fondamentali, non piegarli: la magistratura. Che ruolo ha giocato — e continua a giocare — in questa erosione sistemica della libertà di stampa? Quali magistrati autorizzano provvedimenti che violano il segreto delle fonti favorendo le richieste di "amici" e "colleghi"? Chi controlla, in modo indipendente, l'operato di questi magistrati che hanno palesi conflitti d'interesse e producono atti che sono espressione delle loro idee, non certo l'applicazione della legge? Chi controlla l’uso degli spyware legittimati “per motivi di sicurezza”? E, soprattutto, chi risponde quando le garanzie costituzionali vengono sospese in nome di una ragion di Stato opaca, mai discussa pubblicamente?

In una democrazia sana, la magistratura dovrebbe rappresentare un argine, non un complice silenzioso. Non si può accettare che un Pubblico Ministero riceva un premio dall'Ordine dei Giornalisti. Non si può accettare che fra giornalisti e Procure ci siano rapporti di connivenza. E allora viene da chiedersi: siamo ancora in tempo per recuperare questo equilibrio? Oppure l’Italia ha già accettato, senza dirlo, che la verità sia un fastidio da monitorare e neutralizzare? Domande, appunto. Ma sempre più scomode.

I.R.
Silere non possum