Milano - L’Italia di oggi non è poi così diversa dal villaggio studiato da Edward C. Banfield nel 1958. In quelle pagine, divenute ormai classiche, l’antropologo americano descriveva la società di Montegrano, nel Sud del Paese, come un organismo incapace di cooperare, dominato da una regola semplice: «massimizzare il vantaggio immediato della propria famiglia, supponendo che tutti gli altri faranno lo stesso». Da quella legge non scritta nasceva ciò che Banfield chiamò familismo amorale, un sistema dove la moralità vale solo all’interno del cerchio ristretto dei “nostri”, e ogni senso del bene comune si dissolve.

Sessant’anni dopo, la diagnosi regge ancora, ma ha cambiato volto. Il familismo non si misura più con la parentela, bensì con l’appartenenza simbolica: il genere, l’emozione, la categoria protetta. Il clan oggi non è la famiglia di sangue, ma la comunità emotiva cui apparteniamo.
E la giustizia italiana, più che razionale, sembra piegarsi a questa logica sentimentale.

Stasi e Pifferi: due facce della stessa morale tribale

Nel caso Alberto Stasi, l’opinione pubblica - e soprattutto la stampa e la magistratura requirente - decisero fin dall’inizio che il fidanzato doveva essere colpevole. Non per le prove, ma per la narrazione: se Chiara Poggi era morta, l’uomo accanto a lei doveva essere il carnefice. Un riflesso culturale profondo, lo stesso che nei paesi studiati da Banfield induceva a individuare un colpevole “fuori dal gruppo”. Il fidanzato, l’uomo, è “altro”, e dunque potenzialmente minaccioso. La colpa diventa una categoria identitaria. Ed è quanto sta emergendo anche dal caso delle chat dellefemministe finite sotto accusa per stalking e atti persecutori. Sono i frutti di anni in cui si è alimentata una narrazione unilaterale: l’uomo come pericolo, la donna come vittima per definizione. Un racconto che, nel tentativo di correggere le disuguaglianze del passato, ha finito per crearne di nuove. Dopo tante battaglie per la parità, ci ritroviamo in una società che sembra aver semplicemente invertito i ruoli: l’uomo ridotto a colpevole presunto, la donna elevata a essere moralmente superiore. Non è giustizia: è vendetta travestita da emancipazione.

Tornando ai casi giudiziari più emblematici, oggi ci troviamo di fronte a quello di Alessia Pifferi: una vicenda in cui accade l’esatto contrario rispetto al caso di Garlasco, ma secondo la stessa logica distorta. Una madre lascia morire di sete e fame la propria figlia di diciotto mesi, ma la discussione pubblica si concentra quasi esclusivamente sul suo stato mentale. Si cercano attenuanti, diagnosi, traumi. Nessuno osa ammettere che possa esistere, anche in una madre, una colpa pienamente consapevole. È un tabù che affonda le radici nella nostra cultura: persino chi si proclama ateo o “anticlericale” resta intriso di una mentalità cattolica che ha trasformato la madre in un simbolo intoccabile. La madre, si pensa, non può fare del male al figlio; e se lo fa, dev’esserci sempre un motivo nobile, una forma deviata di amore o di sacrificio.

È il rovescio speculare dello stesso pregiudizio: l’uomo è colpevole perché uomo, la donna è innocente perché donna. Figuriamoci se è madre.

La giustizia come sentimento

Il punto non è solo giuridico, ma antropologico. Nel familismo amorale descritto da Banfield, la moralità è selettiva: riguarda “i nostri”, non “gli altri”.
La coscienza non è universale, ma situata; la compassione non è principio, ma preferenza. Così, anche nella giustizia italiana contemporanea, la pietà diventa una forma di appartenenza: si è indulgenti con chi suscita identificazione, inflessibili con chi rappresenta l’alterità. È la trasformazione emotiva della giustizia, dove il criterio del vero viene sostituito dal grado di empatia che un imputato riesce a evocare.

Banfield osservava che in un contesto familista «non si sviluppa alcun senso del bene pubblico, poiché l’individuo non concepisce la società come qualcosa di separato da sé». Oggi potremmo dire che, in Italia, non si sviluppa neppure un senso della giustizia pubblica: il tribunale diventa una proiezione dei sentimenti collettivi, non della legge.

Una regressione morale

Il risultato è una vera e propria regressione. La giustizia, che dovrebbe fondarsi sull’imparzialità e perseguire l’antico ideale di “dare a ciascuno il suo”, ha smarrito la propria missione più alta: quella di tutelare il debole senza trasformarsi in vendetta contro il forte. Oggi tende invece a ricalcare il modello arcaico della giustizia di clan, dove non si giudicano le azioni ma le appartenenze.

Questo è il nodo profondo delle criticità del sistema giudiziario italiano che oggi si tenta, con fatica, di scardinare, mentre i magistrati continuano a difendere con i denti il proprio potere. Già il solo fatto che in magistratura si parli di correnti, di associazioni nazionali, di gruppi di appartenenza politica dovrebbe apparire inconcepibile.
Eppure, in Italia, funziona così: se sei amico del pubblico ministero — e magari quel magistrato è anche docente in un’università dove tu eserciti influenza — lo contatti, chiedi che sia lui a intercedere e velocizzare il tuo caso, e che “faccia qualcosa”, anche ciò che non dovrebbe, per farti ottenere il risultato desiderato. Gli avvocati italiani continuano a pronunciare un mantra: «Eh, bisogna parlare con il PM». Una cosa impensabile in uno Stato civile. Da qui discendono provvedimenti firmati in violazione di legge, atti di polizia giudiziaria compiuti in modo arbitrario, indagini condotte con metodi al limite — e spesso oltre — la legalità. Ci si scandalizza per ciò che è accaduto a Garlasco, ma quella è solo la punta dell’iceberg: è la quotidianità nelle aule di giustizia. Allo stesso modo, se presenti una querela e il pubblico ministero è amico dell’indagato — o semplicemente non ha voglia di lavorare — il caso viene archiviato con motivazioni pretestuose (“non sono capace di fare click sul computer, perché non sono pagata abbastanza”), spesso senza neppure consentire alla parte offesa di accedere al fascicolo violando il diritto ad ottenere giustizia. Passano mesi, le cancellerie non rispondono, e questi ottimi servitori dello Stato auspicano che qualcuno si stufi. In Italia, più che una giustizia, esiste una casta giudiziaria intoccabile, impermeabile a ogni forma di responsabilità. Sbaglia, spesso con dolo, e resta impunita. In un Paese normale, una simile impunità avrebbe già fatto scendere la gente in strada — non con le bandiere, ma con i forconi.

Il giudice moderno, in Italia, somiglia al capo famiglia del villaggio descritto da Banfield: vive in un mondo dove la verità vale solo se non turba l’ordine emotivo della comunità. Per questo una madre può essere definita “problematicа” anche quando è riconosciuta “capace di intendere e di volere”, anche quando agisce con piena consapevolezza. Perché, in fondo, anche chi davvero non fosse in grado di intendere e di volere comprenderebbe che lasciare una bambina per giorni nel lettino, con solo un biberon, significa condannarla a morire di fame e di sete, tra i propri escrementi. Eppure, nel nostro sistema, quella realtà evidente viene ammorbidita, reinterpretata, assolta in nome di un principio non scritto: la madre non può essere mostro, al massimo è malata.

La domanda, a questo punto, è inevitabile: perché permettiamo a certe persone di procreare? Esiste davvero un diritto alla procreazione se questi sono i presupposti? Perché, se ogni azione compiuta contro i figli viene poi assolta o giustificata, significa ammettere tacitamente che il bambino non è un soggetto da tutelare, ma un oggetto di consumo, esposto alle scelte — o alle follie — dei genitori. E, come se non bastasse, in questo Paese accade l’assurdo: lo si è visto nel caso Bibbiano, dove a finire sulla forca mediatica non sono stati i genitori irresponsabili o violenti, ma i professionisti che cercavano di proteggere i minori. Una società che punisce chi difende i bambini e assolve chi li distrugge non può più dirsi civile. In questo sistema, una madre che ha commesso un omicidio viene descritta come “problematicа”, e la pena, puntualmente, si riduce fino all’incredibile. Un uomo, invece, può essere condannato sulla base di un teorema mediatico, senza prove solide ma con la certezza morale dell’opinione pubblica. Il problema non è giuridico, è culturale: una cultura che ha smarrito la distinzione tra pietà e deresponsabilizzazione, tra comprensione e giustificazione.

Banfield lo avrebbe definito un arresto dello sviluppo morale: l’incapacità collettiva di passare dal piano privato a quello civico, di sostituire la solidarietà di clan con il senso della giustizia.

Forse, allora, la vera “incapacità di intendere e di volere” non appartiene né a Stasi né a Pifferi, ma agli italiani. A un Paese che continua a giudicare con categorie tribali, che confonde l’empatia con la giustizia e che trasforma ogni caso umano in specchio delle proprie paure. Finché la verità continuerà a valere solo dentro il recinto del “nostro gruppo” — che sia familiare, religioso, politico o sentimentale — la società italiana resterà quella che Banfield aveva già descritto: moralmente arretrata, emotivamente autoreferenziale, incapace di concepire un bene comune.

G.V.
Silere non possum