Inviato ad Istanbul - Nella Cattedrale dello Spirito Santo a Istanbul, Leone XIV ha parlato a una comunità che conosce sulla propria pelle cosa significhi essere minoranza. La Chiesa cattolica in Turchia non ha la protezione dei numeri, non detta l’agenda pubblica, non è il centro di nulla. Proprio lì, però, il Papa ha scelto di pronunciare una delle frasi più scomode per un cattolicesimo abituato a misurare tutto in statistiche: «La storia che vi precede non è semplicemente qualcosa da ricordare e poi archiviare in un passato glorioso, mentre guardiamo rassegnati al fatto che la Chiesa cattolica è diventata numericamente più piccola. Al contrario, siamo invitati ad adottare lo sguardo evangelico, illuminato dallo Spirito Santo».
Il “problema” non è che la Chiesa sia piccola. Il problema è lo sguardo con cui leggiamo questa piccolezza: come sconfitta da subire, o come forma evangelica da accogliere.
Piccolezza non è privatizzazione
La prima tentazione, davanti a comunità minoritarie, è chiudersi in un cristianesimo di nicchia: pochi, scelti, magari molto motivati, ma sostanzialmente ripiegati su di sé. Leone XIV rovescia questa logica ricordando che la comunità di Istanbul non è un gruppo spirituale tra i tanti, ma il luogo in cui continua a passare il seme della promessa: «Oggi siete voi la Comunità chiamata a coltivare il seme della fede trasmessoci da Abramo, dagli Apostoli e dai Padri».
Qui tornano alla mente le parole di Henri de Lubac quando insiste sul fatto che la fede, pur personale, non è mai un affare individualista: «il cattolicesimo è essenzialmente sociale […] a tal punto che avrebbe dovuto sempre apparire un pleonasmo l’espressione “cattolicesimo sociale”».
Se la fede è generata, custodita e sviluppata nella Chiesa, allora una Chiesa numericamente piccola non è un corpo “ridotto all’osso” che sopravvive come può; è il soggetto reale della fede in quel luogo. Non è il meno possibile, è il minimo indispensabile perché la memoria apostolica continui a circolare nella storia.
Lo stile di Dio: vicinanza nell’accostarsi, non grandezza di facciata
Il Papa ha usato un’espressione che vale quasi una regola di lettura: «Quando guardiamo con gli occhi di Dio, scopriamo che Egli ha scelto la via della piccolezza». Il riferimento al germoglio di Isaia, al granello di senape, al piccolo gregge non è un vezzo biblico: è una correzione frontale alla nostalgia della “Chiesa grande”. C.S. Lewis, nelle pagine introduttive de I quattro amori, compie un’operazione simile quando distingue tra la “vicinanza per somiglianza” e la “vicinanza di approccio” a Dio. L’uomo è più vicino a Dio non quando gli assomiglia per grandezza, ma quando riconosce il proprio bisogno: l’essere umano si avvicina di più a Dio proprio quando è, in un certo senso, meno simile a Lui: pienezza e bisogno, sovranità e mendicanza, potenza e grido di aiuto. Applicato alla vita ecclesiale, questo significa che una Chiesa numericamente forte, socialmente influente, economicamente robusta può essere “più simile” alla grandezza che immaginiamo di Dio; ma non per questo è più vicina a Lui. Una Chiesa minoritaria, povera di mezzi, ferita da fragilità interne può essere infinitamente più prossima al cuore del Vangelo, se vive da piccolo gregge che sa di non bastarsi.
La piccolezza, allora, non è un incidente di percorso ma la forma concreta che la grazia assume quando la Chiesa smette di confondere la vicinanza a Dio con la rispettabilità sociale.
Quando l’amore diventa idolo
Leone XIV lo dice chiaramente in una cattedrale che è trepidante per la visita del successore di Pietro: «La vera forza della Chiesa non risiede nelle sue risorse e nelle sue strutture, né i frutti della sua missione derivano dal consenso numerico, dalla potenza economica o dalla rilevanza sociale.» Eppure, gran parte delle nostre strategie pastorali continuano a smentire queste parole: rincorriamo visibilità, audience, posizionamento, come se l’obiettivo fosse ricostruire una “grande Chiesa” capace di contare. Lewis descrive bene ciò che accade quando i nostri amori naturali - affetto, amicizia, eros, persino patriottismo – smettono di riconoscere che sono creature e pretendono statuto divino: quando gli amori naturali diventano dei, non rimangono amori; diventano demoni. È esattamente il rischio del nostro amore per la Chiesa. Quando il legame ecclesiale chiede un’adesione assoluta non per Cristo ma per la propria immagine, per il proprio movimento, per la propria comunità, quando l’istituzione pretende protezione a prescindere dalla verità, quando l’appartenenza è misurata su criteri di schieramento più che sul Vangelo, l’amore ecclesiale smette di essere un modo della carità e diventa un idolo. E l’idolo, inevitabilmente, divora i suoi figli. La parola del Papa suona, allora, come un esorcismo: la “logica della piccolezza” non è un romanticismo spirituale, è una purificazione del nostro amore per la Chiesa, perché non si trasformi in culto del potere, del numero, del successo.
Piccola Chiesa, grande comunione
De Lubac ha passato la vita a mostrare che non esiste fede cristiana senza forma ecclesiale. Per lui la mediazione della Chiesa non è un ostacolo tra il credente e Cristo, ma lo spazio stesso in cui la fede può nascere e crescere: la fede ha una forma necessariamente ecclesiale, si confessa dall’interno del corpo di Cristo, come comunione concreta dei credenti. Proprio per questo, la piccolezza evangelica di cui parla Leone XIV non può essere confusa con la fuga in un cristianesimo intimista, “tra pochi eletti”. Se la forza della Chiesa è nella sua comunione con l’Agnello, non nei numeri, allora ogni piccolo gruppo ecclesiale - una diocesi minoritaria, una parrocchia di periferia, una comunità perseguitata in Nigeria - resta, in quanto Chiesa, apertura universale, legame con tutti. De Lubac descrive il vir ecclesiasticus come l’uomo che ha lasciato che la Chiesa gli occupasse il cuore: «La Chiesa ha rapito il suo cuore. È la sua patria spirituale. […] Egli si radica in essa, si forma a sua immagine, s’inserisce nella sua esperienza, si sente ricco delle sue ricchezze […] Dalla Chiesa impara a vivere e a morire. Non la giudica, ma si lascia giudicare da lei. Accetta con gioia di tutto sacrificare alla sua unità».
In Turchia, questo non ha il volto di una superstruttura efficiente, ma di una piccola comunità che rimane fedele al Vangelo in condizioni di marginalità. È qui che vedo incarnarsi quanto diceva De Lubac: essere “uomini della Chiesa” non perché la Chiesa protegge, ma perché, attraverso di essa, si partecipa alla “stabilità di Dio” in mezzo a una storia mobile e fragile.
Dalla minoranza alla carità
Il Papa non si limita a consolare: «La Chiesa che vive in Turchia è una piccola Comunità che, però, resta feconda come seme e lievito del Regno». Questo passaggio sposta l’accento: la piccolezza non è solo condizione da accettare, è vocazione a diventare lievito. Lewis, parlando della Carità, mostra che gli amori umani non sono chiamati a sparire di fronte all’amore di Dio, ma a essere assunti e trasformati: l’amore divino non sostituisce i nostri amori naturali, ma li chiama a diventare modi della Carità, restando ciò che sono. Così la piccola comunità cattolica di Turchia non è chiamata a rinnegare i legami naturali - l’amore per la propria cultura, la lingua, la storia del Paese - ma a lasciarli purificare in una carità che non divinizza nessuna appartenenza.Piccolezza, qui, significa libertà: libertà dagli idoli religiosi e civili che chiedono sacrifici assoluti; libertà di amare davvero il Paese in cui si vive non perché è potente o vincente, ma perché è il luogo concreto in cui il Regno di Dio chiede di essere seminato.
Una domanda per noi
Da Istanbul, da una Cattedrale che ospita un “piccolo gregge”, Leone XIV consegna alla Chiesa intera una domanda scomoda: vogliamo davvero questa piccolezza evangelica, o continuiamo a misurare il futuro della fede con gli stessi criteri del mercato e della politica? Perché il passaggio alla piccolezza non è un ridimensionamento, ma una conversione. Il problema non è che la Chiesa sia numericamente piccola. Il problema è se siamo disposti a lasciarci ridurre alla misura del Vangelo, dove l’unica forza che resta è quella di un amore ecclesiale umile, non idolatrico, capace di essere seme e lievito proprio perché ha smesso di voler essere impero.
d.D.R.
Silere non possum