C’è una scena che si ripete, con leggere variazioni, nella vita affettiva di molti: l’inizio euforico, l’intimità crescente, poi una tensione sottile, una distanza, un dubbio, una fuga. Come se amare, per davvero, fosse troppo. Come se restare fosse più difficile che andare. L’instabilità nelle relazioni è ormai diventata un tratto comune del nostro tempo. Ma cosa significa davvero essere incostanti in amore? E cosa ci spinge a interrompere o sabotare i legami proprio nel momento in cui iniziano a radicarsi?

Parlando ai giovani a Venezia, Papa Francesco ha detto: “Non è facile, ma è il segreto. Sì, il segreto di grandi conquiste è la costanza. È vero che a volte c’è questa fragilità che ti tira giù, ma la costanza è quello che ti porta avanti, è il segreto. Oggi si vive di emozioni veloci, di sensazioni momentanee, di istinti che durano istanti. Ma così non si va lontano” Non si tratta semplicemente di un fenomeno sociale o generazionale. Come sottolinea Umberto Galimberti in Le cose dell’amore, viviamo in una società che ha “psicologizzato” l’amore ma ha smesso di viverlo. Galimberti ci ricorda che nell’epoca dell’individualismo narcisistico, il legame non è più un dato costitutivo dell’identità, ma un rischio, una perdita potenziale. L’altro può limitarmi, può deludermi, può non essere abbastanza. Così la relazione diventa fragile, instabile, reversibile. John Bowlby, fondatore della teoria dell’attaccamento, ha spiegato quanto la nostra modalità di vivere i legami affettivi da adulti sia radicata nelle esperienze infantili. Un attaccamento sicuro favorisce relazioni stabili e fiduciose, mentre un attaccamento ansioso o evitante genera comportamenti oscillanti, segnati da bisogno e rifiuto, vicinanza e paura. Chi ha sperimentato l’amore come qualcosa di condizionato o incostante, spesso ripete questo schema: cerca conferme, ma quando le ottiene si ritrae, come se la stabilità fosse sospetta, o addirittura minacciosa.

Se il legame si consolida, fuggo

Secondo Raffaele Morelli, psichiatra e psicoterapeuta, spesso la paura di amare nasce dal timore di perdere sé stessi nell’altro. In molti dei suoi libri – come Ama e non pensare o Il segreto della vita – Morelli descrive come la tensione tra il desiderio di fusione e quello di autonomia possa diventare un conflitto paralizzante. Quando l’intimità diventa troppo profonda, scatta un meccanismo di difesa: si litiga, ci si allontana, si mette in discussione tutto. Non per mancanza di affetto, ma per paura. Paura di dipendere, di essere vulnerabili, di non essere più liberi.

Questo comportamento è stato ben analizzato anche dalla psicoterapeuta Esther Perel, che nel suo libro L’intelligenza erotica esplora come il bisogno di sicurezza e quello di novità spesso si scontrino all’interno delle relazioni. Quando l’altro si stabilizza nel ruolo di “presenza certa”, qualcosa dentro di noi si spegne. Allora mettiamo alla prova il rapporto, inconsciamente. Un litigio improvviso, un gesto di freddezza, un allontanamento. Non perché vogliamo rompere, ma perché abbiamo bisogno di essere rassicurati. È il paradosso: per sentirci amati, a volte dobbiamo perderci. L’assenza diventa una richiesta implicita: “mi cercherai?”. Questo meccanismo è particolarmente evidente nelle persone con uno stile di attaccamento ansioso. Amir Levine in Attached spiega come queste persone vivono la relazione come un campo minato. Ogni silenzio è un presagio di abbandono, ogni differenza un sintomo di incompatibilità. Ma al tempo stesso, quando l’altro è stabile, affettuoso, disponibile, può scattare un impulso opposto: svalutare, dubitare, fuggire.

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