Città del Vaticano - Negli ultimi anni sono nate numerose applicazioni per la Liturgia delle Ore: strumenti utili, spesso ben realizzati, che permettono di pregare anche quando non si ha con sé il breviario. Durante un viaggio, una sosta in stazione, o in una stanza d’albergo, l’applicazione può rivelarsi un aiuto prezioso per chi desidera restare fedele all’impegno della preghiera quotidiana.

Eppure, come accade per ogni mezzo tecnologico, l’utilità si accompagna a un rischio: quello di trasformare la preghiera in un’attività di sottofondo, da consumare come un podcast mentre si guida, si cucina o si sistema la casa.
Molti, infatti, ascoltano le Lodi o i Vespri direttamente dall’applicazione, recitati o cantati da altri, convinti di aver così “assolto” al dovere della Liturgia delle Ore. Ma è davvero così?

La Liturgia delle Ore non è soltanto un obbligo — quello che promettiamo il giorno della nostra ordinazione — bensì un rapporto reale con Dio, scandito nel tempo e nello spazio. Nella storia della Chiesa, essa è nata per ricordare al monaco, al sacerdote e al cristiano la necessità di fermarsi, anche nel mezzo del lavoro, per dedicare un tempo esclusivo al Signore. Pregare non è “ascoltare qualcosa su Dio”: è parlare con Lui. E perché ci sia dialogo, occorre il silenzio, l’attenzione, la sospensione delle altre cose.

Negli anni del Seminario arrivarono due ragazzi provenienti da un'altra diocesi, dove la formazione si concentrava molto sull’esteriorità e sull’apparenza. La preghiera era vissuta come un dovere da adempiere, un cartellino da timbrare. Ricordo uno di loro che, quando la Liturgia delle Ore era personale, recitava tutto in fretta, senza soffermarsi sulle parole. Non pregava: eseguiva. E quel modo di fare, con il tempo, è diventato un vuoto spirituale evidente, emerso in tutta la sua gravità, mentre i cosiddetti “formatori competenti” di allora non si erano accorti di nulla. Nulla di nuovo sotto il sole. 

Quando la formazione spirituale si riduce all’adempimento, si genera inevitabilmente una fede fragile, incapace di resistere alla solitudine o alla distrazione. Lo stesso accade oggi, quando il cellulare, strumento del mondo connesso e dispersivo, viene usato senza discernimento anche nel momento più intimo della giornata: la preghiera. Le notifiche, i messaggi, le vibrazioni costanti, interrompono il silenzio dell’anima e introducono nella relazione con Dio la logica dell’istantaneità e del multitasking. Ma la preghiera non è un “task”. È un tempo separato, “sacro” nel senso più profondo del termine: messo da parte per Dio.

L’app, dunque, può essere un aiuto prezioso, ma non sostituisce la disposizione del cuore. Non basta “ascoltare” una preghiera: bisogna pregare davvero, con consapevolezza, con il corpo e con lo spirito. La preghiera domanda tempo, preparazione, un atto di libertà dal resto. Per questo, l’uso delle applicazioni digitali per la Liturgia delle Ore deve essere accompagnato da un gesto di discernimento: spegnere le notifiche, creare uno spazio di silenzio, fermarsi. Solo così la tecnologia resta un mezzo e non diventa un ostacolo; solo così il “breviario digitale” rimane un ponte verso Dio, e non un’altra finestra aperta sul mare del frastuono.

Scrive san Francesco di Sales nella Filotea: «Trova un po’ di tempo prima di cena, inginocchiati davanti a Dio, raccogli il tuo spirito vicino a Gesù Cristo crocifisso (...). Ti prego, Filotea, non trascurarlo mai!» E ancora: «Ogni giorno consacra all’orazione un’ora... lo spirito sarà più libero e più fresco per il riposo della notte.» In queste parole si riassume la sapienza di un maestro dell’interiorità: la preghiera chiede silenzio, tempo e presenza reale. La Liturgia delle Ore non è un sottofondo, ma un incontro; non riempie i vuoti della giornata, li trasforma. Pregare, ricorda san Francesco di Sales, significa raccogliere lo spirito, sottrarsi al flusso continuo delle distrazioni e fare spazio alla Presenza. Solo in questo silenzio nasce la vera comunione con Dio.

d.L.C.
Silere non possum