Forse non è la solitudine il segno più evidente del nostro tempo, ma l’incapacità di abitare la relazione. Viviamo circondati da schermi, profili, connessioni, eppure sempre più distanti. Non mancano i contatti: mancano i legami. È come se, lentamente, si fosse dissolto quel tessuto invisibile che un tempo teneva insieme persone, famiglie, comunità. La sociologia lo chiama disaffiliazione: un processo silenzioso, ma profondo, di sfilacciamento dei rapporti umani.

I numeri non lasciano dubbi. Secondo l’OCSE, una persona su dieci non ha relazioni significative. Un dato che cresce tra gli anziani, ma non risparmia giovani e adulti. La rete prometteva connessione, ma ha prodotto isolamento. L’intelligenza artificiale, poi, sta portando la solitudine a un nuovo livello: non più mancanza di relazioni, ma sostituzione delle relazioni.
Ci sono applicazioni che, addirittura, offrono “amici virtuali” su misura. Sono la caricatura di una prossimità che non costa nulla e non ferisce mai. L’altro non è più un volto, ma uno specchio senza profondità.

Così la relazione perde il suo carattere originario di incontro — quello di cui parlava Martin Buber, quando scriveva che “ogni vera vita è incontro”. Oggi, al contrario, l’altro viene percepito come funzione: serve finché serve, poi si archivia. Nel paradigma Io-Esso, tutto è ridotto a oggetto, consumo, algoritmo. Ma solo la relazione Io-Tu — quella che riconosce l’altro come presenza irriducibile — genera vita e senso.

È qui che risuona anche l’intuizione di Emmanuel Lévinas: “Il volto dell’altro mi impone un dovere”. Guardare davvero qualcuno è lasciarsi chiamare, destabilizzare, perfino ferire. La relazione autentica è l’opposto della sicurezza: è rischio, esposizione, dono. Ed è proprio questo rischio che l’uomo contemporaneo non vuole più correre. Preferisce il controllo alla comunione, l’immagine al corpo, la risposta immediata alla pazienza del dialogo. Ma un legame senza vulnerabilità è un legame sterile.

A livello sociale, le conseguenze sono visibili: famiglie più piccole, reti di prossimità indebolite, solitudini urbane. Nelle metropoli europee oltre la metà dei nuclei familiari è formata da un solo individuo. La famiglia, che per secoli è stata la prima scuola di socialità, oggi si frammenta tra orari di lavoro incompatibili e stili di vita disallineati. E quando si rompe la trama domestica, si sfilaccia anche quella comunitaria: meno tempo, meno ascolto, meno memoria condivisa.

Eppure, proprio in questo scenario, si apre una possibilità: ricostruire la cultura del legame.
Non con soluzioni tecniche, ma con una rinnovata visione dell’umano. La Dottrina sociale della Chiesa lo ripete da tempo: la persona non esiste da sola, ma “in relazione”. Papa Francesco, in Fratelli tutti, ricordava che nessuno si salva da solo, ma soltanto insieme.
L’individualismo, mascherato da libertà, si rivela allora una forma di schiavitù sottile: l’uomo chiuso in sé stesso finisce per perdersi.

Serve una conversione dello sguardo, un nuovo modo di intendere la libertà. Non come autosufficienza, ma come reciprocità. Essere liberi significa poter contare su qualcuno e sapere che qualcuno può contare su di noi. È il legame, non l’indipendenza, a generare libertà. Nell’incontro con l’altro, infatti, si rivela ciò che siamo. È lì che l’io diventa volto, parola, presenza.

La disaffiliazione, allora, non è un destino inevitabile. È un campanello d’allarme che ci invita a tornare umani. Ricomporre la trama dei legami — sentimentali, amicali, comunitari — non è un esercizio di nostalgia, ma un compito politico e spirituale. Perché senza fiducia non esiste democrazia, senza relazioni non esiste società, e senza l’altro non esiste uomo. Ritrovare la relazione significa ritrovare noi stessi.

G.T.
Silere non possum