«L’unità nella Chiesa e fra le Chiese [...] si nutre di perdono e di reciproca fiducia. A cominciare dalle nostre famiglie e dalle nostre comunità. Se infatti Gesù si fida di noi, anche noi possiamo fidarci gli uni degli altri, nel suo Nome», ha ricordato Papa Leone XIV. 

La comunione è una delle preoccupazioni più pressanti che il Santo Padre sente al momento. Non le fasce con gli stemmi, non le scarpe, non sciocchezze. Il Santo Padre, fin dall'inizio del suo ministero petrino, ha parlato di unità e comunione perchè è ben consapevole che la Pace è necessario costruirla prima di tutto fra noi e poi invocarla per il mondo intero.

Eppure, nelle sue pieghe quotidiane, la comunione è spesso l’esperienza più fragile. Le comunità oggi non si spezzano più per divergenze di fede o per dispute teologiche, ma perché le relazioni si intorbidano. Non per mancanza di carità, ma per paura del contatto.

Nella vita ecclesiale si parla molto di qualcuno, e poco con qualcuno.
È questa la prima, sottile malattia che corrode il corpo ecclesiale: la sostituzione del volto con la voce di un altro. Ci si protegge dietro l’opinione altrui, si sfoga la tensione affidandola a un terzo, si invoca il discernimento come se fosse un tribunale. E in questo gioco di rimandi, la verità si perde, la fiducia si spegne, la comunione diventa pura retorica.

L’illusione della comunione

Ogni sistema umano - e la Chiesa è un sistema umano oltre che divino - vive di equilibri emotivi. Dietro l’apparente calma di una comunità si agitano paure, ferite, nostalgie, bisogni di riconoscimento. Quando una di queste tensioni cresce, la comunità reagisce. Ma raramente reagisce nella verità.

Nelle comunità ecclesiali la verità non viene negata: viene mediata, rimandata, trasferita ad altri. Si preferisce confidarsi piuttosto che confrontarsi. Così nasce la triangolazione: due persone in tensione che coinvolgono un terzo per alleggerire la propria ansia. È un gesto quasi impercettibile - una parola all’orecchio, un accenno carico di sottintesi, una richiesta di consiglio che in realtà cerca complicità. Ma nel tempo diventa un linguaggio collettivo, una modalità abituale di esistenza ecclesiale.

La triangolazione è il virus relazionale più diffuso nella Chiesa. Non uccide subito: corrode lentamente. Trasforma le comunità in reti di alleanze affettive, dove la fedeltà non è più verso la verità, ma verso il gruppo che dà sicurezza. È così che nasce la “comunione apparente”: la pace che regna nei corridoi perché tutti sanno ciò che pensano di tutti, ma nessuno osa dirlo apertamente.

Il corpo che non regge la tensione

Quando il conflitto non viene affrontato, l’ansia non si dissolve: cerca un contenitore. Se non è il dialogo, diventa lamentele, ironia, sarcasmo, freddezza. Le emozioni represse non spariscono, si organizzano - e finiscono per strutturare la vita comunitaria. Una diocesi o un monastero non si ammala per mancanza di vocazioni, ma perché non riesce più a reggere la tensione della verità. Allora l’ansia si spiritualizza: si parla di “prudenza”, di “discernimento”, di “unità”, ma sono spesso nomi diversi per dire paura. In ogni triangolazione c’è una fuga: fuga dalla realtà, fuga dal dolore, fuga dal rischio di essere fraintesi. Ma una Chiesa che non sa reggere il conflitto non regge neppure la grazia, perché la grazia passa sempre per la frattura. Non è un caso che il Risorto si mostri ai discepoli non nascondendo le ferite, ma mostrandole. La comunità matura non è quella senza conflitti, ma quella che non ha più paura delle proprie cicatrici.

Quando l’autorità diventa complice

Chi guida una comunità, diocesana o monastica, entra inevitabilmente nel flusso di queste ansie. Il problema non è essere coinvolti, ma lasciarsi contagiare. Quando il leader - il vescovo, il parroco, l’abate - accoglie lamentele senza chiedere confronto diretto, quando ascolta mezze verità senza pretendere chiarezza, diventa parte della triangolazione. Non è più guida, ma snodo di ansie. E allora la comunità, invece di pacificarsi, si moltiplica in fazioni invisibili, piccoli altari dell’approvazione reciproca. L’autorità ansiosa è sempre difensiva. Vuole risolvere tutto in fretta, prendere posizione, pacificare. Ma la vera guida non pacifica: rende abitabile la tensione. Non spegne il fuoco, insegna a non bruciarsi. La leadership ecclesiale non è controllo delle emozioni altrui, ma presenza stabile in mezzo all’instabilità. Quando una guida riesce a mantenersi connessa senza diventare complice, la comunità ritrova un equilibrio. La pace non è l’assenza di conflitto, ma la libertà di affrontarlo senza distruggersi.

Il peccato della mormorazione

La tradizione spirituale lo chiama “mormorazione”, Papa Francesco lo chiamava "chiacchiericcio". Ma ciò che spesso si riduce a peccato della lingua è in realtà una questione antropologica e spirituale di prim’ordine. Ogni parola detta in assenza dell’altro è un atto di divisione. È un modo per spostare la croce, per non guardare in volto chi ci ferisce, per non dire a voce ciò che sussurra la paura. La mormorazione è una liturgia inversa: trasforma la parola in arma, la relazione in alleanza segreta, la comunione in controllo. Eppure, quante volte i confessionali si riempiono di peccati di carne, ma restano vuoti di peccati di voce! Sono pochi coloro che confessano di aver parlato “di” un fratello invece che “con” lui. Eppure è lì che nasce la morte spirituale di una comunità: quando la parola smette di essere incontro e diventa messaggio cifrato.

Parlare con, non di

La guarigione delle relazioni non comincia con la disciplina, ma con una rivoluzione linguistica. Parlare con è il gesto più evangelico che esista. Richiede coraggio, ascolto, vulnerabilità. Significa accettare la possibilità del rifiuto, ma scegliere comunque la verità. Ogni volta che parliamo di qualcuno invece che con qualcuno, scegliamo la paura. Il Vangelo non conosce il linguaggio indiretto. Gesù non parla di Pietro o di Giuda: parla con loro. Li guarda, li interpella, li lascia liberi di rispondere o di fuggire. È in questo gesto che la Chiesa si gioca la propria autenticità. Una comunità che smette di guardarsi in volto smette di essere Chiesa. Lì dove non si osa più la parola diretta, il Vangelo diventa dottrina fredda, e la carità si riduce a convenzione.

Il volto come sacramento della verità

Ogni relazione è un piccolo sacramento: un luogo dove la verità si fa carne. La Chiesa non vive di idee, ma di volti che si riconoscono. Quando il volto viene sostituito dal messaggio, quando la relazione diventa funzione, il corpo si ammala. La terapia comincia sempre dallo sguardo. Guardare l’altro senza difendersi, ascoltarlo senza cercare alleati: è il primo atto di fede in un Dio che si è fatto volto. Non c’è bisogno di inventare nuove forme di comunione: basta tornare al coraggio dell’incontro. Perché una comunità che parla “con” è una comunità che crede ancora nell’incarnazione. E la Chiesa che crede nell’incarnazione sa che la grazia non scorre tra gli schieramenti, ma tra due volti che si riconciliano.

La verità nasce dal confronto

Il peccato più grave non è l’infedeltà, ma l’indifferenza che nasce dalla paura del confronto. Laddove si tace per prudenza, si uccide la comunione; dove si parla per sfogarsi, si alimenta l’ansia; ma dove si parla con, lì la Chiesa rinasce. Il futuro delle comunità cristiane non dipenderà dalle strategie pastorali o dalle riforme istituzionali, ma dalla maturità relazionale dei suoi membri: dalla capacità di sopportare la verità senza cercare intermediari. La santità, oggi, ha il volto di chi sceglie la relazione diretta come atto di fede. E la Chiesa, per tornare a essere madre, deve prima disimparare a fare da mediatrice delle paure, e tornare a essere luogo di verità tra persone che si guardano in volto.

p.R.A.
Silere non possum