Roma - In questi giorni stiamo documentando, carte alla mano, la vicenda che scuote il monastero cistercense di San Giacomo di Veglia nella diocesi di Vittorio Veneto. Abbiamo già pubblicato atti e testimonianze - e ne pubblicheremo altri. Puntuale come la pioggia nei giorni di festa, la nostra inchiesta ha attirato l’attenzione dei giornalisti: categoria che, salvo lodevoli eccezioni, si muove con la grazia di uno stormo di sciacalli. Lo “stile Le Iene” seduce soprattutto chi, al pomeriggio, in Italia non ha di meglio da fare che ipnotizzarsi davanti a Canale 5.

Abbiamo ripetuto più volte che quella che si autocelebra come “quarta estate” dell’informazione in realtà forma una lobby incapace di spiegare la Chiesa cattolica — cosa che anche Papa Leone XIV, nel discorso alla stampa di pochi giorni fa, ha stigmatizzato. Questi crociati del taccuino passano buona parte del tempo a divorare Silere non possum, tanto sui social quanto sul sito. Sia chiaro: ne siamo onorati. Il problema è un altro. Gli appartenenti a questi “ordini” (il termine non è casuale) si preoccupano più di proteggere la corporazione che di dare voce alla verità; puntano più a garantirsi la prima fila che a raccontare i fatti. Conosciamo già il copione: in Italia gli ordini professionali fanno cassa prima di tutto. Lo si vede con gli psicologi, intenti a difendere la propria sopravvivenza che i pazienti vittime di pseudo preti psicologi, e lo si vede con l’Ordine dei giornalisti, i cui consigli di disciplina non vigilano sull’etica degli iscritti ma sulla conservazione del proprio potere. Non per nulla qualcuno chiamava la stampa “quarto potere”.

Peccato (per loro) che siano finiti i tempi in cui la gente accendeva la TV per occuparsi il cervello: i giovani la disertano, i lettori di quotidiani invecchiano. Sui social, nei siti indipendenti e nei blog, la verità trova spazio grazie a chi non ha secondi fini. Silere non possum nacque proprio per difendere la Chiesa dalle narrazioni tossiche che le si appiccicavano addosso, soprattutto sotto Benedetto XVI, pontefice che mai offrì ai cronisti la “chiacchieratina esclusiva” o lo scoop da fast‑food. Ora, alla vigilia di Leone XIV, gli stessi repressi giornalistici attaccano anche lui, perché non distribuisce palliativi mediatici come faceva papa Francesco, prodigo di selfie e sorrisi a Santa Marta in cambio di silenzi compiacenti su abusi di potere ben più gravi.




Dal caso San  Giacomo al “giornalismo” di Pomeriggio Cinque

Costretti a sviare brevemente dall’inchiesta sul monastero, dobbiamo denunciare le uscite gravissime dell’abate generale cistercense, Mauro Giuseppe Lepori e lo stile scorretto della signora Ilaria Dalle Palle, che per Pomeriggio Cinque ha intervistato il religioso ciellino.

Prima ha contattato Silere non possum, chiedendo con insistenza un “canale preferenziale” e cercando di estrarre ogni informazione possibile sulla vicenda di San Giacomo di Veglia. Non ottenendo ciò che voleva, è passata direttamente al palcoscenico televisivo, dove — guarda caso — si è ben guardata dal citare la fonte, neppure per sbaglio e  nemmeno a proposito della Relazione della Madre Visitatrice — pur confessando: «Sto leggendo tutto sul vostro sito». Il trattamento riservato a questi cronisti è sempre il solito: o raccontate la Chiesa per ciò che è, oppure occupatevi di altro. E qualcuno non ha capito che o si pacifica con questo standard oppure avrà ben poco di cui parlare in futuro.

Noi lo ripetiamo da sempre a religiosi e chierici: a questa gente non bisogna concedere interviste. L’abbiamo visto con la retata televisiva all’oblata del monastero, immortalata mentre dichiarava: «L’unica colpa di suor Aline è essere bella, giovane e brasiliana». Una battuta che è costata alla religiosa la richiesta di allontanamento. Questi “professionisti” ignorano (o fingono di ignorare) la vita ecclesiale e, spesso, lo fanno di proposito. Silere non possum non ha mai rincorso il sensazionalismo. Qualche presbitero e vescovo marchigiana ricorda il giorno in cui il cardinale De Donatis, fresco di blitz delle Iene, fuggì in preda al panico temendo che anche noi gli piazzassimo il microfono‑trappola. «Vederlo scappare ha divertito tutti i preti», confessa uno di loro; ma nessuno di noi aveva bisogno di braccarlo: documenti e dichiarazioni li otteniamo senza agguati televisivi.

Niente domande scomode, niente giornalismo

La signora Dalle Palle, in un tripudio di genio, è andata alla Casa Generalizia dei Cistercensi, sull’Aventino, per intervistare Lepori. E, ovviamente, niente domande scomode, benché dicesse di aver “letto tutto”. Perché? Perché alla prima domanda scomoda l’intervista “concordata” sarebbe saltata. Chiamarlo giornalismo sarebbe un insulto al giornalismo vero: chiamiamolo piuttosto intrattenimento scandalistico, confezionato per il pubblico che sbadiglia sul divano o altro, ecco… Ma il giornalismo di Mediaset è così, non dobbiamo stupirci, Dalle Palle è collega di Fabio Marchese Ragona, il quale ha affermato di essersi dato appuntamento con il cardinal Prevost a "dopo il Conclave" a marzo 2025. Un veggente, questo genio del giornalismo siciliano. Tutto per millantare conoscenze, incontri, importanza. Imbarazzanti e ridicoli. 

Il metodo Silere e la ricerca della Verità

Silere non possum opera per il bene della Chiesa: non ha bisogno di riprendere ecclesiastici che balbettano sotto la luce LED, non gode a vedere la gente umiliarsi in video. C’è già chi si umilia da solo. Il nostro stile non è, e non sarà, quello dell’agguato televisivo. I milioni di utenti che ci seguono lo sanno e lo apprezzano. Lo avremmo potuto fare con Mauro Gambetti, Rupnik ( di cui abbiamo tirato il caso fuori noi), ecc... ma non ne abbiamo bisogno. Abbiamo invitato più volte Gambetti da queste pagine a presentarsi, visto che diceva di voler parlare, ma mai lo ha fatto. Perchè? Perchè noi non facciamo le domande che fa Dalle Palle, noi facciamo le domande con i documenti. 

I documenti parlano e non pensiamo che il lettore abbia bisogno delle nostre considerazioni. Basta leggere le carte.

Le gravi parole di Lepori

Due sono gli aspetti dell’intervista a Pomeriggio Cinque che hanno profondamente irritato — e non poco — i cistercensi che l’hanno ascoltata. Il primo è lampante: l’abate generale Mauro Giuseppe Lepori si permette di pontificare sul fatto che la modalità con cui le monache di San Giacomo di Veglia hanno pubblicizzato la loro attività “non è monastica”. Peccato che questo, oltre a essere un suo giudizio personale (peraltro discutibile), non sia affatto il parere dell’intero Ordine.

Lo dimostra chiaramente il documento del Capitolo Generale dell’Ordine cistercense, che abbiamo già pubblicato. Ma si sa, Lepori ha da tempo adottato il tono paternalistico della maestrina con la penna rossa, convinto di essere l’unico a incarnare l’autentica vita monastica. Il problema, però, è che a fare due conti questa presunta "coerenza" suona più come una sceneggiata che una testimonianza credibile. E infatti, la domanda che molti si pongono è la seguente: far entrare una volta le telecamere in monastero per far conoscere il vino prodotto dalle monache e dare così un sostegno economico alla comunità... non sarebbe forse un modo concreto e dignitoso di vivere il lavoro monastico, secondo la regola di san Benedetto? Oppure c’è una nuova regola — non scritta, ma decisa da Lepori — che definisce cosa sia “monastico” e cosa no? Ma chi lo decide, appunto? Lepori? Lo stesso Lepori che passa la vita a girare diocesi in lungo e in largo, che fa apparizioni alle conferenze, che non manca mai al Meeting di Rimini dove sfila tra stand e mostre come una star del cattolicesimo da salotto? Lo stesso che vive più fuori dal monastero che dentro, e non certo per visite strettamente necessarie? Le uscite “pastorali” sono solo una parte del programma. E, guarda caso, quando i riflettori puntano su qualcun altro che non sia lui, allora diventa tutto "non monastico". Curiosa coincidenza.

Alcune monache — con più onestà e meno ipocrisia — fanno notare: “Anche se fosse discutibile far entrare le telecamere, si caccia una badessa per questo? Quando gli è stato riferito che alcune monache erano state redarguite perché guardavano contenuti pornografici dal computer del monastero, la sua risposta è stata: ‘sono cose che capitano’.” Già, “sono cose che capitano”. Tutto giustificabile se riguarda il mio circolo. Ma se le monache cercano di far conoscere un prodotto per sostenere la propria comunità, allora no: quello è un crimine, una colpa imperdonabile. Strano, vero? Forse perché quelle monache erano sue figlie spirituali. E allora cambia tutto. Allora entra in gioco la protezione, il paternalismo, il doppio standard.

Il secondo passaggio dell’intervista che ha fatto infuriare
— a ragione — molti cistercensi è stata la chiosa dell’abate generale sulla chiusura dei monasteri. Lepori ha infatti dichiarato: “Non ho mai chiuso un monastero, al massimo celebrato dei funerali di monasteri che erano già morti.”

Ora, una simile affermazione, oltre a essere di un’arroganza spaventosa, è anche una clamorosa menzogna. Dentro l’Ordine cistercense, davanti ai suoi confratelli, una frase del genere dovrebbe costargli la convocazione immediata e le dimissioni incondizionate. Non solo per la falsità del contenuto, ma per l’oltraggio che rappresenta verso intere comunità religiose, la loro storia, la loro vocazione e le persone che vi hanno dedicato la vita e hanno dovuto abbandonare le comunità a 80, 90 anni. Frasi del genere si possono forse pronunciare davanti a giornaliste come la signora Dalle Palle, che capisce di vita ecclesiale quanto un bambino capisce di trigonometria. Ma non davanti a religiosi e religiose che hanno visto, proprio sotto il suo governo, morire comunità che ancora respiravano. E che sono state portate al collasso proprio a causa delle sue decisioni, delle sue ingerenze, della sua incapacità di ascoltare.

Quella frase — “Non ho mai chiuso un monastero” — è uno sputo in faccia alla storia dell’Ordine
. È l’espressione di un uomo che, convinto di essere il padrone assoluto, si permette di minimizzare l’estinzione di realtà vive, riducendole a esequie formali. L'Ordre, c’est moi”, scrivevamo giorni fa. Mai espressione fu più aderente alla realtà: per Lepori, l’Ordine cistercense coincide con la sua persona. Tutto ciò che esiste al di fuori del suo pensiero viene ridotto a polvere. Ma oltre alla violenza simbolica di quelle parole, c’è anche un dato concreto: è falso che Lepori non abbia chiuso monasteri. È falso che le chiusure siano avvenute per cause “naturali”. In più di un caso, come per l’Abbazia di Zirc, le responsabilità portano dritto al suo ufficio. E altre comunità stanno per fare la stessa fine, spinte verso il baratro da decisioni scollate dalla realtà, prese da chi vive arroccato su se stesso, convinto di sapere tutto e di non dover rendere conto a nessuno. E qui sta il nodo centrale: Lepori appartiene a quella generazione di ecclesiastici talmente pieni di sé, dei propri titoli e dei propri giri di conferenze, da non rendersi neppure conto di quanto siano lontani dalla vita reale dell’Ordine. Uomini che parlano di “sinodalità” solo nei documenti ufficiali o nei circoli di fronte al Papa, salvo poi ignorare sistematicamente ogni istanza che venga dal basso.

È questa la grande ipocrisia che ha segnato il tanto decantato Sinodo sulla sinodalità: si è parlato di ascolto e condivisione mentre nei fatti regnava la solita autoreferenzialità, la stessa che guida uomini come Lepori, che governano in funzione di sé stessi, non della Chiesa, non dell’Ordine, non del bene comune. Non è difficile capire, allora, perché queste figure siano sempre più isolate. Non solo dai confratelli, ma da chiunque si trovi a dover collaborare con loro quotidianamente. Quando un superiore non è stimato da chi vive con lui, da chi lavora accanto a lui, qualcosa è andato storto. E non si tratta di piccole divergenze, ma di una rottura profonda, di un fallimento nel senso più ecclesiale del termine.

La recente elezione di Leone XIV ci fornisce un esempio opposto e illuminante.
Robert Francis Prevost, a differenza del suo predecessore (che nell’Ordine era diventato un nome impronunciabile), è amato dagli agostiniani. Non solo lo rispettano: lo ricordano con gratitudine, affetto, e riconoscenza autentica. Non a caso fu eletto priore generale per due mandati, non uno solo. E questo è un indicatore reale di quanto ha fatto per loro. Anche al Dicastero per i Vescovi ha lasciato una bellissima testimonianza e chi lo conosce da anni ne parla solo bene. 

Perché è facile essere amati da chi non ti conosce, da qualche fedele che ti guarda in tv o da laici che in chiesa non ci mettono piede. È facile essere amati dagli anticlericali se ogni due minuti sputi veleno sui tuoi preti. Ma il vero giudizio viene da chi condivide la vita con te ogni giorno: confratelli, consorelle, collaboratori, sacerdoti. Se non ti sopportano loro, se non ti stimano loro, se addirittura ti temono o ti disprezzano, allora è lì che devi guardare. Perché non c’è potere, croce pettorale o passerella che possa coprire un fallimento umano ed ecclesiale così profondo. Quanto alle monache cistercensi, torneremo presto sui documenti, sulle responsabilità e sulle omissioni. Nel frattempo, lasciamo ai “cronisti da salotto” la loro caccia al click. Continueranno a ignorare le domande vere, a leccare il potere di turno, a proteggere l’ordine — professionale e corporativo — che li nutre. Ma chi cerca la verità sa dove trovarla.

p.E.T. e F.P.
Silere non possum