La crisi educativa che attraversa famiglie e scuole non nasce dall’assenza di conoscenze, ma dall’assenza di linguaggi emotivi. Cresciamo giovani che sanno spiegare la fotosintesi, ma non sanno dire “mi sento solo”. Nella scuola italiana l’affettività è ancora un tabù: si parla di tutto, tranne di ciò che più forma la persona — il sentire, il corpo, il desiderio, la relazione. Le famiglie non suppliscono a questa carenza, anzi la amplificano. Molti genitori non sanno come affrontare il tema dell’affettività e della sessualità: oscillano tra pudore e vergogna, tra paura di “dire troppo” e imbarazzo nel dire qualsiasi cosa. L’educazione emotiva è delegata ai social, all’esperienza, o al caso. Così, in una società che moltiplica le connessioni ma smarrisce i legami, i ragazzi crescono privi di strumenti per leggere sé stessi.
Platone, nel Simposio, aveva capito che l’amore non è un istinto da subire, ma una forza da educare. La sua Diotima insegna a Socrate che Eros nasce dal desiderio, ma può elevarsi solo se guidato: dal corpo alla bellezza, e dalla bellezza alla verità Senza educazione, l’amore si ferma al primo gradino: diventa consumo, possesso, fuga. Il filosofo greco sapeva che l’educazione dell’anima passa per la purificazione del desiderio — un lavoro lungo, non di repressione, ma di orientamento.
Anche Aristotele, nell’Etica Nicomachea, lega la virtù all’educazione del sentire. Nessuna azione buona è possibile senza abitudine affettiva: «bisogna essere stati educati ad abitudini buone per ricevere in modo adeguato le lezioni sul bello e sul bene» L’uomo non diventa giusto per sapere che cosa sia la giustizia, ma per aver imparato a provare le emozioni giuste nel modo giusto. Se la scuola ignora questa verità antica, produce menti istruite e cuori analfabeti. La letteratura lo ha raccontato con lucidità tragica. Goethe, nei Dolori del giovane Werther, ha dato voce alla prima generazione che si è trovata sola di fronte al sentimento. Werther ama senza misura, non perché ami troppo, ma perché nessuno gli ha insegnato a farlo. È il figlio di una modernità senza padri, di una società che celebra la libertà ma non offre orientamento. Il suo suicidio è la conseguenza di un’educazione mancata: quella che avrebbe potuto insegnargli che il desiderio non va negato, ma compreso, nominato, custodito.
A distanza di secoli, Alessandro D’Avenia ha descritto la stessa povertà emotiva con le parole di un insegnante che ascolta i suoi studenti: «Viviamo in un’epoca ebbra di emozioni di superficie ma assetata di amori profondi». La scuola, dice, non può più permettersi di separare conoscenza e vita, sapere e passione. Senza un’educazione affettiva, i ragazzi si perdono nel rumore emotivo di un mondo che li stimola continuamente ma non insegna loro a scegliere. Ciò che serve non è un’ora in più di biologia, ma una pedagogia dell’anima: un’educazione che insegni a nominare le emozioni, a riconoscere il corpo come linguaggio, a vivere la sessualità come relazione e non come performance. È un compito educativo e politico insieme, perché da esso dipende la possibilità di una società capace di empatia, di cura, di rispetto.
Platone avrebbe detto che l’amore è la via più alta verso la conoscenza. Aristotele che la virtù nasce dall’educazione delle passioni. Goethe che senza guida l’amore diventa malattia. D’Avenia che solo accettando la fragilità si diventa forti. Tutti, a modo loro, dicono la stessa cosa: non si diventa uomini se non si impara ad amare. E finché la scuola continuerà a tacere su questo, formerà studenti competenti ma incapaci di vivere.
M.P.
Silere non possum