La crisi di autorevolezza, nella Chiesa come in molte istituzioni civili, non è innanzitutto un problema di messaggi inefficaci, ma di presenza insufficiente. L’autorità viene rispettata quando non si sottrae, quando resta esposta al giudizio, quando accetta il peso del dialogo e non si rifugia in scorciatoie di consenso o nell’immunità del ruolo.
Nella società odierna esiste una gioventù che non si ribella alle regole: si ribella al fatto che chi le pronuncia spesso non le rappresenta. Il vescovo che rifugge dalla critica, il rettore che teme la voce discordante, l’insegnante che mal sopporta il contraddittorio, l’educatore che elude il confronto, la guida che sceglie l’assenza di rischio pur di non fallire - perché ha deciso di non esporsi - sono tutte manifestazioni della medesima fragilità: l’incapacità di assumere una presenza pubblica che accetti il peso del dialogo e della verifica, mettendo il ruolo al riparo dalla realtà invece di abitarla.
I ragazzi non soffrono un eccesso di vincoli, ma la mancanza di guide tangibili. Temono il vuoto relazionale più del conflitto, perché il conflitto, se ben attraversato, almeno presuppone qualcuno che resti sulla scena.
La Chiesa che dialoga solo a circuito chiuso
Anche dentro l’ecosistema cattolico, il rischio è che la parola si muova solo nel recinto di chi è già persuaso. Non per malizia, spesso, ma per abitudine culturale: i linguaggi della formazione religiosa restano densi e articolati ad uso interno, mentre all’esterno arrivano echi sfocati, privi di incarnazione concreta. Il messaggio, per quanto radicale, non diventa storia condivisibile se manca chi lo abita personalmente. Quando un ragazzo incontra la Chiesa Cattolica nella prima parte della sua vita - nel catechismo, nella liturgia, nella voce della predicazione - percepisce uno splendore promettente. Ma poi, crescendo, può imbattersi in una Chiesa poco narrata come comunità umana: un’istituzione che spiega, ma a volte non racconta chi è davvero nel mondo, nella cultura, nelle relazioni reali. Così il contrasto si fa evidente: molte parole, pochi testimoni vivi, rare storie comunitarie. Un patrimonio immenso di riflessione teologica rischia di restare senza eco pubblica, non perché sia falso, ma perché non si offre come esperienza affidabile per tutti, non solo per gli addetti ai lavori.
L’algoritmo come tentazione di sostituire la carne
A complicare il quadro emerge un ulteriore paradosso: una civiltà immersa nel digitale confonde l’esserci con il connettersi. Anche l’intelligenza artificiale - per quanto potente - viene talora concepita come ragione autoreferenziale, incapace di sostenere il confronto tra contrari se non lo contempla come parametro strutturale. Il pericolo non verificato (e dichiarato come tale) è di diventare ripetitori: strumenti che replicano coerenze perfette, ma senza corpo, senza rischio, senza frizione generativa.
La fede, al contrario, non è un’adesione algoritmica: è un affidamento personale, concreto, che accetta vulnerabilità, contraddizioni, crescita progressiva. La figura che manca ai giovani non è quella dell’adulto irreprensibile, ma quella dell’adulto che non si eclissa, che non pretende di essere onnipotente, e proprio per questo non si sottrae al dovere educativo. Il vero maestro non elimina il dialogo, lo presidia. Non silenzia i contrari, li attraversa. Non smette di argomentare il vero per paura dei conflitti: resta lì, con coraggio sobrio, ma non spensierato.
Chi affida a Dio non scappa dal mondo
C’è un modo di testimoniare l’autorità del Vangelo che oggi appare quasi inedito nella percezione delle masse: un’autorità non mondana, che non nasce dal diritto di comando, ma dalla scelta di esserci per incarico ricevuto, non per dominio ottenuto. Non chiede appartenenza, suscita fiducia nel vero. Non impone uniformità, propone autenticità verificabile in chi ascolta. L’adulto che ti porta davanti a Dio non presume di fare da divinità alternativa, e proprio per questo non si comporta da creatura assente. È ciò che probabilmente spiega la curiosa sintonia che intere folle - spesso lontane dal recinto dei praticanti - mostrano verso quelle figure di riferimento che parlano con ruvida franchezza ma senza sdolcinature, che mettono ordine ma non cancellano l’altro, che accettano il confronto nel linguaggio urbano ma non lo assorbono come mentalità dominante.
La lezione che non è un rimedio, ma un invio
I giovani, oggi, non sono senza Dio perché rifiutano l’autorità: sono senza bussola perché nessuno gliela mostra da dentro la realtà. Il proprio desiderio di comprendere non nasce da dichiarazioni astratte, ma dall’incontro con adulti che accettano il mondo reale e lo guardano negli occhi, anche quando è complicato. Senza una meta narrata, non c’è curiosità educativa che regga. Senza un porto segnalato da un volto credibile, la navigazione del pensiero diventa un’angoscia di mare aperto, non un rischio entusiasmante.
Il problema non è l’assenza di discorsi: è l’assenza di maestri che non si stacchino dalla scena prima ancora di cominciarla. La Chiesa ha ancora parole balbettanti verso l’esterno, ma è chiaro che nel profondo delle coscienze sa di non essere terminale, ma mediatrice: non la misura del perfetto, ma un popolo di creature in cammino verso un compimento che non coincide mai con noi stessi.
Quando la fede non si presenta come premio ai perfetti ma come credito consegnato agli imperfetti, allora la conversazione cambia natura: non è più un circuito interno, diventa abitazione reale dell’altro, del mondo, del futuro.
d.L.S.
Silere non possum