Due ore di macchina dal centro della diocesi, strade buie, una canonica semi vuota, nessun coetaneo con cui parlare. Il nuovo parroco non ha neppure trent’anni, è stato ordinato da poco, fino a ieri seguiva centinaia di giovani in oratorio e sui social, ora si ritrova in un paese di poche anime, senza confronto, senza fraternità, senza reale possibilità di continuare quel ministero che lo aveva reso così vicino alle nuove generazioni.
Ufficialmente è una nomina pastorale: “la periferia ha diritto a un parroco giovane e pieno di energie”. Di fatto, però, i confratelli sanno che quella è una parrocchia nella quale “vieni sbattuto se rischi di fare ombra al vescovo”. Con il pontificato di Papa Francesco il numero dei vescovi giovani è esploso e, tranne qualche sprovveduto, ormai tutti hanno capito che molte di queste nomine si stanno rivelando deleterie. Perché? Perché manca la maturità, manca l’esperienza e spesso gli stessi interessati finiscono per soffrire un incarico che da un lato hanno inseguito spasmodicamente, ma dall’altro li imprigiona: sempre sotto lo sguardo della gente e dei confratelli, schiacciati dal peso di una diocesi e di tutti i problemi che questa si porta dietro.

Il malcontento fra i preti e gli abusi
Tra i presbiteri, soprattutto i più giovani, emergono racconti che descrivono situazioni inquietanti: vescovi che governano la diocesi come se fossero sospesi in una sorta di adolescenza prolungata. Uomini di Chiesa che, invece di rappresentare una paternità matura, finiscono per entrare nelle dinamiche di gelosie, chiacchiericcio, cordate, che pure esistono nei presbiteri ma che un vescovo maturo dovrebbe saper disinnescare, non alimentare. Dom Dysmas de Lassus, priore certosino e autore di “Schiacciare l’anima. Rischi e derive della vita religiosa”, descrive nella tradizione russa la figura dei mladostartchestvo, i “giovani anziani”: guide spirituali che si comportano come grandi maestri senza averne l’esperienza, la santità e il carisma. Sono uomini che “giocano a fare lo staretz” e finiscono per produrre solo frutti di confusione e dipendenza.
Trasposto al governo diocesano, il rischio è evidente: vescovi che esigono un’obbedienza totale pur senza aver raggiunto una vera maturità affettiva e spirituale, e che reagiscono come adolescenti feriti quando un giovane prete è più cercato di loro dalla gente o osa mettere in discussione le loro visioni e le loro richieste. È qui che emerge tutta la distanza tra i “vescovi di una volta” e molti vescovi di oggi. Il vescovo padre è colui che si confronta con i sacerdoti, comprende, ascolta e poi decide; non aveva bisogno di proclamare la sinodalità perché la viveva nella forma concreta della paternità. Oggi, invece, si riempiono la bocca di sinodalità ma agiscono da despoti, e le loro decisioni portano spesso il segno del risentimento, della ripicca, della voglia di punire. E se ti ribelli? Ti mandano dallo psicologo, non qualcuno realmente libero e competente, ma il professionista di fiducia del loro circolo, funzionale più a “fare il lavaggio del cervello” al prete che a prendersi cura della sua persona.
Obbedienza o controllo? Quando la volontà del vescovo prende il posto di Dio
Nel linguaggio ecclesiale, obbedienza è una parola nobile. Dom Dysmas ricorda che l’obbedienza, nella tradizione della Chiesa, riguarda la volontà e le azioni, non i pensieri: un superiore può chiedere di fare qualcosa, non può pretendere di comandare ciò che un soggetto deve pensare o sentire. In molte testimonianze di seminaristi, sacerdoti o religiosi religiosi, tuttavia, emerge una distorsione: l’obbedienza viene utilizzata come chiave per controllare anche la coscienza, annullare il giudizio personale, sostituire il discernimento con un “fai come dico io” che pretende di valere “in nome di Dio”. Stai per partire per il campo estivo con i giovani della parrocchia quando, poco prima di salire sul pulmino, arriva la telefonata del vescovo: «Dobbiamo parlare». Questi vescovi pretendono che tu lasci tutto e vada subito, perché prima di tutto ci sono loro. Non rispettano il tempo del prete, non sanno attendere, non considerano che anche il sacerdote ha una sua vita, delle responsabilità e delle attività già in corso. E la sproporzione è evidente: quando sei tu a chiedere un appuntamento in un momento di difficoltà, devi aspettare settimane prima di riuscire a incontrarli; quando sono loro a cercare te, devi presentarti immediatamente.
È questo che de Lassus chiama “abuso spirituale”, un male che non è solo un errore di governo, ma una vera violenza sulla persona. Citato nel volume, il teologo Jacques Poujol parla di abuso spirituale come di un “cattivo trattamento spirituale e psicologico inflitto a una persona”, che ha come conseguenza quella di indebolirla fino a distruggerla e renderla dipendente, sia psicologicamente sia spiritualmente. Se questo vale per una comunità religiosa, vale ancora di più nel rapporto tra vescovo e sacerdoti. Quando veniamo ordinati promettiamo obbedienza e fedeltà al vescovo, successore degli apostoli. Ma quando quell’ordinario si serve di questa promessa per garantirsi silenzio, sottomissione incondizionata, assenza di critiche e allineamento totale, non siamo più nel campo della guida pastorale: siamo già sulla soglia del controllo.
Periferie come esilio, non come missione
Una delle forme più subdole di abuso è l’uso delle nomine come strumento di punizione non dichiarata. Non ci sono decreti che parlano di sanzioni, non esistono provvedimenti disciplinari scritti, ma basta guardare la mappa della diocesi per capire: i preti “problematici” finiscono nelle parrocchie più lontane, i sacerdoti molto seguiti dai giovani vengono spostati dove i giovani praticamente non ci sono, chi osa proporre una pastorale più viva si ritrova in località che non compaiono nemmeno nei collegamenti diretti con la città. Il punto non è che una parrocchia di montagna o di campagna sia in sé un “castigo”. Il punto è il criterio con cui si decide chi deve andarci. Esistono certamente parrocchie per le quali sono più adatti sacerdoti maturi, con anni di ministero alle spalle e una struttura interiore consolidata; e ci sono contesti - scuole, università, oratori, centri cittadini - in cui è quasi naturale che siano preti giovani a stare accanto ai giovani, a parlare il loro linguaggio, a condividere orari e fatiche. Quando, invece, un prete appena ordinato viene mandato solo, a ore di distanza dal presbiterio, senza una rete di relazioni che possa sostenerlo, senza possibilità di continuare l’impegno con le realtà giovanili, solo perché “troppo seguito” o “troppo stimato dalla gente”, quella periferia cessa di essere un luogo di missione e diventa un luogo di esilio. Le conseguenze non sono solo pastorali. Un giovane sacerdote isolato rischia la depressione, il ripiegamento su di sé, la perdita di entusiasmo vocazionale. La solitudine non scelta, imposta “per obbedienza”, può trasformarsi in un terreno fertile per ogni tipo di fragilità: dipendenze, cinismo, perdita di fiducia nella Chiesa. Quello che, all’esterno, appare come un normale trasferimento, dall’interno viene vissuto come una misura disciplinare mascherata.
Quando il vescovo pretende di gestire l’anima del prete
Nel cuore del libro di De Lassus c’è una frase che racchiude il dramma dell’abuso spirituale: l’abusante prende “nelle sue mani il mio cervello, il mio cuore, la mia anima, il mio spirito”. È quella che l’autore definisce “schiavitù senza catene visibili”: la persona non è legata fisicamente, ma psicologicamente e spiritualmente. Applicata al rapporto tra vescovo e sacerdote, questa dinamica appare ogni volta che un vescovo: interpreta ogni dissenso come mancanza di fedeltà, usa il richiamo all’unità per spegnere domande legittime e confonde il rifiuto di una decisione ingiusta con il rifiuto di sé. In questa logica, il vescovo non è più il padre che discerne insieme al sacerdote, ma il capo che pretende di decidere al posto del sacerdote cosa Dio vuole da lui. L’“obbedienza” diventa così un dispositivo che permette al superiore di occupare il luogo della coscienza. De Lassus insiste sul fatto che l’abuso spirituale è un abuso di autorità aggravato dall’uso dell’autorità divina: si invoca Dio per ottenere ciò che si desidera, si sacralizza la propria volontà per renderla indiscutibile. «Io sono il tuo vescovo», «Io ti dico qual è la volonta di Dio», «Se disobbedisci a me, disobbedisci alla Chiesa», ecc…Per un prete giovane, che ha promesso obbedienza “al vescovo e ai suoi successori”, è particolarmente difficile distinguere tra obbedienza dovuta e manipolazione. Il rischio è quello di pensare che, se non si accetta un trasferimento punitivo, si stia rifiutando Dio stesso. Ed è esattamente qui che l’abuso spirituale raggiunge la sua massima gravità: non solo ferisce la persona, ma sfigura l’immagine di Dio.

Vocazioni spezzate e immagine di Dio ferita
Nelle pagine più drammatiche del libro, molte vittime di abusi nelle comunità religiose confessano di non riuscire più a pregare: “Non so più pregare, non posso più pregare”. Il desiderio di Dio resta, ma la sua immagine è stata talmente deformata dall’autorità abusante da rendere impossibile la relazione. Ed è ciò che accade quando il sacerdote viene umiliato, isolato, continuamente sospettato, la ferita non riguarda solo il suo equilibrio psicologico, ma anche la sua fede. Se la figura del superiore - che nella teologia cattolica è segno della paternità di Dio - si sovrappone a quella di un padre narcisista, geloso, imprevedibile, la tentazione di allontanarsi non è solo dalla struttura ecclesiastica, ma da Dio stesso. Una parte delle attuali crisi vocazionali non nasce semplicemente da fragilità personali o da “mancanza di fede” dei sacerdoti. Nasce da sistemi di governo immaturi, da prassi consolidate di controllo, da una cultura diocesana che tollera l’uso delle nomine come forma di rappresaglia. È la stessa diagnosi che De Lassus applica alla vita religiosa: quando il problema smette di essere il singolo superiore e diventa “cultura di comunità”, il sistema immunitario interno non funziona più e solo un intervento esterno può essere efficace. Se questo è vero per una congregazione, lo è anche per una diocesi.
Una Chiesa adulta: mettere al centro i preti feriti
Nel testo introduttivo a Schiacciare l’anima, un alto responsabile vaticano scrive che nessuno può “restare indifferente se dei giovani che avevano avuto fiducia nella Chiesa vedono tradita la loro fiducia e depredata la loro vita”. E aggiunge che questo libro serve a rafforzare le “difese immunitarie” della Chiesa, perché le comunità siano vigilanti nella prevenzione delle derive. Rafforzare le difese immunitarie della Chiesa, affinchè le nostre realtà siano vigilanti nella prevenzione di queste derive, significa anche ascoltare la parola dei preti feriti, senza liquidarla come “lamentele clericali”; valutare con serietà le scelte di governo dei vescovi, soprattutto quando producono isolamento e umiliazione sistematica e soprattutto formare i nuovi vescovi non solo alla gestione amministrativa, ma a una paternità non possessiva, capace di far emergere i carismi anziché soffocarli. Perché se in questi anni abbiamo ascoltato numerose considerazioni sugli abusi sui minori anche nei corsi organizzati dal Dicastero per i Vescovi o per l’Evangelizzazione, molto poco si è parlato dell’abuso di potere su sacerdoti e sottoposti.
Non si tratta di demolire l’autorità episcopale, ma di ricondurla alla sua forma evangelica: un servizio alla libertàdelle persone, non una gestione ansiosa del proprio prestigio. Anche da questo punto di vista emerge una dicotomia preoccupante: da un lato c’è chi è pronto a togliersi anelli, fasce, croci e pizzi, ma dall’altro guai a toccargli i propri privilegi di vescovo, cioè il prestigio sociale, il rispetto da parte delle istituzioni, la cameriera che lava e stira, il posto auto, la presidenza delle riunioni e delle celebrazioni e l’obbedienza dei preti. Il nodo sta anche nell’immaturità di molti di questi uomini che vengono ordinati vescovi dopo un percorso seminaristico povero dal punto di vista affettivo e umano. Un vescovo davvero padre, invece, gioisce quando un suo prete è stimato, seguito, cercato dai giovani: non lo vive come una minaccia alla propria immagine, ma come un segno che il Vangelo sta passando attraverso il ministero dei suoi sacerdoti. L’abuso dei vescovi sui loro sacerdoti - soprattutto quando assume la forma elegante dell’isolamento pastorale, del trasferimento punitivo, della delegittimazione sottile - non è un capitolo secondario. È una delle frontiere più serie della conversione ecclesiale.
Finché esisteranno vescovi adolescenti che governano come capi di una banda e non come padri, ci saranno preti sacrificati come prezzo da pagare all’ego di qualcuno. Raccontare queste storie, alla luce di analisi come quella di dom Dysmas de Lassus, non significa attaccare la Chiesa, ma custodire il suo cuore: perché nessun prete debba più vedere la propria anima schiacciata da chi avrebbe dovuto custodirla.
d.C.P. e p.L.E.
Silere non possum