Città del Vaticano - Alle ore 10 di questa mattina, XXX Domenica del Tempo Ordinario, nella Basilica di San Pietro, il Santo Padre Leone XIV ha presieduto la Santa Messa in occasione del Giubileo delle Équipe Sinodali e degli organi di partecipazione.

L’evento si colloca nel solco del Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia, culminato il 25 ottobre con la terza Assemblea sinodale, durante la quale è stato approvato - con 781 “placet” su 809 votanti — il Documento di sintesi intitolato “Lievito di pace e di speranza”. Un titolo che non è solo un’immagine poetica, ma una dichiarazione programmatica: la Chiesa deve tornare a essere segno di comunione e fermento di unità, non laboratorio di strategie o di poteri contrapposti.

Una Chiesa che nasce dall’amore, non dal potere

Nell’omelia, il Pontefice ha invitato le équipe sinodali a riscoprire il mistero della Chiesa come realtà spirituale prima che istituzionale: «La Chiesa non è una semplice istituzione religiosa né si identifica con le gerarchie e con le sue strutture. È il segno visibile dell’unione tra Dio e l’umanità, il progetto di radunarci in un’unica famiglia di fratelli e sorelle». Un passaggio che segna un ritorno all’essenza ecclesiale delineata dal Concilio Vaticano II: la Chiesa come Popolo di Dio, in cui nessuno domina e nessuno resta escluso. Per questo, Leone XIV ha ribadito con forza: «Regola suprema, nella Chiesa, è l’amore: nessuno è chiamato a comandare, tutti sono chiamati a servire; nessuno deve imporre le proprie idee, tutti dobbiamo ascoltarci». Non è una formula retorica, ma una denuncia implicita di ciò che ancora oggi rischia di minare la comunione: personalismi, rivalità, logiche mondane che trasformano la vita ecclesiale in un’arena di potere.

Il fariseo e il pubblicano: l’io che prevale sul noi

Il Papa ha intrecciato la riflessione sinodale con la parabola del fariseo e del pubblicano, proclamata nel Vangelo del giorno. Due uomini che “camminano insieme”, ma che non condividono nulla: «Tutti e due salgono al Tempio, ma uno si prende il primo posto e l’altro rimane all’ultimo; tutti e due pregano, ma senza essere fratelli». Leone XIV ha usato l’immagine per mettere in guardia la Chiesa da un rischio sottile: «Succede anche nella Comunità cristiana quando l’io prevale sul noi, quando la pretesa di essere migliori degli altri genera divisione e trasforma la Comunità in un luogo giudicante ed escludente».

È provvidenziale che proprio questo brano evangelico venga proclamato in una domenica come questa, mentre - soprattutto sui social - la comunità che si definisce cattolica appare profondamente divisa. Da un lato, vi sono coloro che deridono e attaccano quanti restano legati alla tradizione e alla celebrazione eucaristica secondo il Messale Romano del 1962, promulgato da san Giovanni XXIII: commenti sprezzanti, parole taglienti, atteggiamenti che feriscono una parte viva della Chiesa. Dall’altro lato, vi è una frangia tradizionalista che, con la stessa arroganza del fariseo evangelico, giudica e condanna, etichettando gli altri come “non veri cattolici”, proclamando l’esistenza di un’unica “vera Messa” e contrapponendo la propria appartenenza a quella altrui. Ma dietro questa rigidità dottrinale si cela spesso un atteggiamento ideologico: una religione costruita su convinzioni politiche, più che su fede e carità.

E le contraddizioni, in effetti, non mancano. Durante il pellegrinaggio compiuto nelle scorse ore da una piccola frangiadella comunità legata alla liturgia del 1962 - la componente più divisiva e ideologizzata -, in Basilica si sono visti uomini uniti civilmente con altri uomini o coinvolti in procedimenti penali per comportamenti tutt’altro che evangelici, che tuttavia si presentano come strenui difensori della cosiddetta “dottrina tradizionale”, della “famiglia naturale”, della “vera Chiesa”. Tra i banchi erano presenti anche volti noti di chi, quotidianamente, insulta e giudica chi non ritiene “vero cattolico”, accusandolo di peccato e di immoralità, salvo poi essere gli stessi che flirtano con altri uomini pur avendo moglie e figli. C’erano mariti e mogli che amano predicare la “famiglia tradizionale”, ma che nella loro vita vivono situazioni familiari lacerate, contraddittorie, spesso lontane proprio da quel Vangelo che dicono di voler difendere.

Un quadro che mostra quanto l’ipocrisia religiosa possa travestirsi da zelo e quanto il moralismo - quando si sostituisce alla fede - diventi la più pericolosa forma di menzogna. Le parole di Leone XIV nell’omelia sembrano allora rivolgersi a entrambe queste derive: a chi usa la tradizione come arma e a chi la dileggia come segno di arretratezza. Due facce di un medesimo smarrimento, che dimentica ciò che il Papa ha ricordato con forza: nella Chiesa, nessuno è chiamato a comandare, tutti sono chiamati a servire. Nessuno dovrebbe ritenersi migliore degli altri, e ciascuno dovrebbe poter trovare il proprio posto nella Chiesa secondo la propria sensibilità - che non è e non deve mai diventare ideologia.

Il semplice fatto che alcuni sentano invece il bisogno di dileggiare, giudicare o denigrare gli altri rivela qualcosa di più profondo: ferite interiori, fragilità non riconciliate, questioni irrisolte che, anziché essere affidate alla grazia, vengono proiettate sugli altri sotto forma di disprezzo.

Il modello da seguire, ci spiega oggi Leone XIV, è invece quello del pubblicano, che non si esalta ma riconosce il proprio bisogno di Dio: «Il Cristo appartiene a coloro che sentono umilmente, non a coloro che si innalzano al di sopra del gregge», ha ricordato citando San Clemente Romano.

Sinodalità come cammino comune, non somma di opinioni

Il Pontefice ha poi indicato il cuore della sinodalità come ricerca condivisa della verità: «Essere Chiesa sinodale significa riconoscere che la verità non si possiede, ma si cerca insieme, lasciandosi guidare da un cuore inquieto e innamorato dell’Amore». Il discernimento ecclesiale, ha ammonito, non è un compromesso tra posizioni, ma un cammino spirituale che chiede libertà interiore, umiltà, preghiera, fiducia reciproca e apertura alla volontà di Dio.

In questo periodo storico in cui la Chiesa vive segnata da contrapposizioni - tra tradizione e novità, autorità e partecipazione, unità e diversità - Leone XIV ha invitato a non ridurre le tensioni a scontri ideologici, ma a lasciarle «fecondare dallo Spirito» affinché diventino spazio di discernimento e di crescita comune.

Una Chiesa umile e conviviale

Il Papa ha concluso l’omelia delineando l’immagine di una Chiesa “umile e conviviale”, che si riconosce serva e non padrona: «Dobbiamo sognare e costruire una Chiesa che non sta dritta in piedi come il fariseo, trionfante e gonfia di sé, ma che si abbassa per lavare i piedi dell’umanità». Leone XIV ha poi invocato la Vergine Maria con le parole del venerabile Antonio Bello: «Santa Maria, donna conviviale, alimenta nelle nostre Chiese lo spasimo di comunione… Spegni i focolai delle fazioni, stempera le rivalità, fermale quando decidono di mettersi in proprio». Una preghiera che, più che una conclusione, è un programma: rifare della Chiesa una casa abitabile, dove le differenze non dividono ma si riconciliano. Una casa che vive non della forza dei suoi membri, ma della grazia che li unisce. 

Leone XIV chiude così un’altra tappa del Giubileo con un invito che risuona come mandato: camminare insieme, non per uniformarsi, ma per diventare un corpo vivo, in ascolto dello Spirito e al servizio del mondo. Per il Papa, nella Chiesa c’è davvero spazio per tutti: essa non chiude la porta a nessuno, né a chi è già dentro né a chi si trova ancora fuori.

Ciò che conta, però, è che tutti rispettino tutti, senza la pretesa di prevalere sugli altri o di impartire insegnamenti che non spettano a singoli o a gruppi, ma alla Chiesa stessa, la sola chiamata - e capace - di accompagnare i suoi figli nel cammino della fede.

d.R.A.
Silere non possum