Città del Vaticano - Questa mattina, nella cornice di Piazza San Pietro, Papa Leone XIV ha incontrato i fedeli per una nuova udienza giubilare del sabato, appuntamento previsto in questo Anno Santo come momento di catechesi e di richiamo alle radici evangeliche della speranza cristiana. Al centro dell’intervento, il tema: Sperare è prendere posizione. Dorothy Day. Una meditazione intensa, ancorata al Vangelo e scandita dal riferimento alla figura profetica di Dorothy Day.
La decisione che muove il cammino del pellegrino
Il Papa ha aperto la catechesi richiamando il senso del pellegrinaggio: l’arrivo a Roma è il frutto di un desiderio nato nel cuore e trasformato in decisione. «Qualcosa, all’inizio, si è mosso dentro di voi», ha detto, sottolineando come il cammino fisico sia specchio di quello spirituale: «Il Signore stesso vi ha presi per mano: un desiderio e poi una decisione». Ricordare questo momento originario è essenziale per comprendere la dinamica della fede, che non cresce in modo automatico ma nasce da un sì libero e personale. Il Vangelo proclamato poco prima, con il monito: «A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto», diventa per il Pontefice un criterio di responsabilità. Chi ha ricevuto tanto dalla vita ecclesiale – pur nei suoi limiti – è chiamato a una risposta più alta. «Gesù si aspetta molto da noi. È un segno di fiducia, di amicizia. Si aspetta molto, perché ci conosce e sa che possiamo!».
Il fuoco che toglie la falsa pace
Leone XIV ha poi affrontato un passaggio decisivo: Gesù porta il fuoco sulla terra. È il fuoco dell’amore e del desiderio, che non consente di rifugiarsi in una pace apparente, intesa come assenza di disturbo o come isolamento dagli altri. «A volte vorremmo essere “lasciati in pace”», ha osservato. Ma questa non è la pace di Dio.
La pace evangelica è un dinamismo che spinge ad agire: «Ci chiede, soprattutto, di prendere posizione. Davanti alle ingiustizie, alle diseguaglianze, dove la dignità umana è calpestata, dove ai fragili è tolta la parola: prendere posizione». Qui il Papa condensa la sua riflessione centrale: «Sperare è prendere posizione». La speranza non è evasione ma riconoscimento che il mondo può essere cambiato, e che il cristiano è chiamato a testimoniarlo “nei fatti”.
Dorothy Day: una speranza operosa
Per dare concretezza a questo principio, il Pontefice ha presentato la figura della giornalista e attivista statunitense del XX secolo: «Aveva il fuoco dentro. Dorothy Day ha preso posizione». Ha visto l’iniquità strutturale del modello di sviluppo del suo Paese e ha compreso che «il sogno per troppi era un incubo». Il Papa ha posto l’accento sulla sua capacità di unire pensiero e azione: «Scriveva e serviva: è importante unire mente, cuore e mani». Scrivere, ha aggiunto, «è importante. E anche leggere, oggi più che mai». Ma Dorothy non si fermava alle parole: serviva i pasti, distribuiva vestiti, viveva come coloro che aiutava. Così mostrava che sperare non è un sentimento ma un impegno incarnato.
L’eredità della Day è stata quella di generare comunità: case aperte nelle città e nei quartieri, non “grandi centri di servizi”, bensì luoghi dove «chiamarsi per nome» e trasformare «l’indignazione in comunione e in azione». Gli operatori di pace, ha spiegato il Papa, assomigliano a lei: «Prendono posizione e ne portano le conseguenze, ma vanno avanti».
Il Giubileo deve ravvivare questo fuoco: «Il suo fuoco è il nostro fuoco. Che il Giubileo lo ravvivi in noi e in tutta la Chiesa!».
La musica e il canto liturgico
Nel saluto ai fedeli italiani, Leone XIV ha accolto numerosi pellegrinaggi diocesani e gruppi giubilari. Particolare attenzione è stata rivolta ai cori partecipanti al Giubileo delle Corali. La memoria odierna di Santa Cecilia ha offerto al Papa l’occasione per ricordare che «la musica e il canto legati all’ambito liturgico sono una forma di preghiera» e uno strumento che «unisce i cuori nella lode».
Infine, un pensiero per giovani, malati e sposi novelli, invitati a vivere il Vangelo con «rinnovata generosità» e a trasformarlo in testimonianza concreta.
d.G.C.
Silere non possum