Città del Vaticano - Il 28 e 29 luglio giungeranno in Vaticano e nell’Urbe centinaia di missionari digitali e influencer cattolici in occasione del loro Giubileo. La parola “influencer” suscita spesso un sorriso ironico o un’alzata di spalle. Ma cosa significa davvero?
Con questo termine si indica chi, grazie alla propria visibilità e credibilità nelle piattaforme digitali, è capace di orientare opinioni, gusti e comportamenti. Non basta avere molti follower: ciò che definisce un vero influencer è la capacità di esercitare un’influenza reale, fondata su una relazione di fiducia con il proprio pubblico. Come ha evidenziato il sociologo Pierre Bourdieu, si tratta di una forma di potere che poggia su un capitale simbolico: un riconoscimento sociale che non deriva da titoli o autorità formale, ma da una legittimazione pubblica. Tuttavia, avverte la psicologa Sherry Turkle, in ambienti costruiti per premiare l’apparenza, il rischio è quello di costruire un’identità performativa, modellata sui consensi più che sulla verità personale. È qui che si gioca la differenza per chi si dice cristiano: il missionario digitale non può ridursi a un “prodotto” dell’algoritmo. È chiamato a portare su piattaforme dominate da numeri e logiche di mercato qualcosa che non si misura in click: la Parola. L’influencer cattolico dev’essere credibile, non perché mostra sé stesso, ma perché trasmette qualcosa di più grande: il Vangelo.
Una missione possibile?
Ma, al di là delle etichette — che talvolta rischiano di ridurre la complessità — la questione è seria: è possibile evangelizzare nell’era digitale senza diventare schiavi dei suoi meccanismi? Quella del missionario digitale è una vocazione nuova solo nelle forme, non nella sostanza. Il mandato è lo stesso: annunciare Cristo e il Vangelo, senza alterarlo per compiacere il pubblico. Ma oggi questo annuncio si gioca dentro dinamiche inedite, dove la logica della “buona notizia” si intreccia con la logica dell’engagement, dei follower, dell’algoritmo. Inoltre, c’è un aspetto fondamentale che non può essere trascurato: l’umanità di chi veicola il messaggio. Ma non si tratta di una novità. Parliamo spesso del narcisismo di chi pubblica video sui social, della smania di apparire, e talvolta è vero. Ma davvero questo fenomeno è esclusivo dei social network? Non c’è forse una forma analoga di narcisismo anche in certi predicatori che, dal pulpito, si danno arie e coltivano una certa immagine pubblica? Non è forse narcisismo anche quello di chi fonda tutto sull’apparenza, sull’autorappresentazione, piuttosto che sulla verità di sé?
Certo, si potrebbe obiettare che i social sono per loro natura spazi dominati dall’apparenza. Ma siamo sicuri che la Chiesa non abbia da tempo imparato — e talvolta promosso — una narrazione non reale della realtà, piegata all’esigenza di risultare accettabile agli occhi della comunità? Quante volte, invece di dire la verità, l’abbiamo truccata per renderla presentabile? Tornando alla vicenda di Cencini, di cui abbiamo parlato nei giorni scorsi: chi sono gli “omosessuali non strutturali”, se non coloro che, spinti da una cultura ecclesiale ambigua e giudicante, negano a sé stessi e al mondo la propria identità?
Sia chiaro: Silere non possum ha sempre sostenuto che non è affatto necessario sbandierare la propria vita personale, sia essa legata all’orientamento sessuale o al gusto per la cucina thailandese. La questione, però, non è questa ma cosa stiamo facendo come comunità di credenti. Stiamo spingendo le persone a sentirsi sbagliate, a nascondersi, a negarsi. E questo è inaccettabile. Quante coppie oggi vivono relazioni precarie o infelici perché, anche a causa di analfabeti come Cencini, i giovani non si sentono liberi di dire la verità su sé stessi, e finiscono per costruire relazioni basate sulla menzogna o sull’autoinganno? Quante sofferenze si sarebbero potute evitare se avessimo scelto di proporre un cammino di verità anziché un’etica dell’apparenza?
Il rischio dell'influencer oggi è quello di restare schiavo dei numeri e progettare i contenuti pensando ad aumentarli. È un sistema che sperimentiamo anche noi. Spesso ci viene chiesto: “Perché avete così pochi follower sui social, nonostante il sito sia visitato da milioni di persone?”. Una domanda che sorge spontanea guardando a ciò che accade nella realtà: Silere non possum è tema ricorrente di discussione, tanto tra i preti quanto tra i fedeli. Lo si cita nelle comunità parrocchiali, nei seminari, nei conventi, nei gruppi sacerdotali e religiosi.
Anche quando denunciamo comportamenti distorti — come quelli adottati da Gianpiero Palmieri — il confronto che ne scaturisce mostra quanto i temi sollevati da Silere non possum siano percepiti come rilevanti. In molti contesti ecclesiali si discute se si è d’accordo o meno con ciò che scriviamo, e spesso le reazioni, anche critiche, diventano per noi motivo di ulteriore riflessione.
Sul social, però, non c’è il like, non c’è il follow, non c’è la condivisione. Gli articoli circolano di chat in chat, ma pochi hanno il coraggio di esporsi pubblicamente. Perché? Perché nella Chiesa l’ambiente è profondamente giudicante, e l’apparenza conta più della verità della vita. Ci si preoccupa di sembrare irreprensibili, anche a costo di soffocare sotto il peso di un sistema malato. Ci si aggrappa all’immagine, anche quando si è interiormente a pezzi. Oggi, la Chiesa somiglia sempre più a un social network: con le sue dinamiche da stadio, le tifoserie, le logiche binarie. Se segui una persona, vuol dire che ne condividi ogni idea. Se metti un like a un post, sei immediatamente etichettato come “dei suoi”. Se ti vedono parlare con qualcuno, allora sei “la fonte” di quel sito. Anche il dibattito teologico è ridotto a questo: non confronto, ma appartenenza; non pensiero, ma tifo.
Siamo diventati incapaci di dialogare con chi è diverso da noi. Poi abbiamo i “mastro cioccolatai” come Cencini che parlano di “alterità”. Si parla solo con chi ci approva, non con chi ci sfida. E questo, per un cristiano — e ancor più per un prete — è un fallimento spirituale ed ecclesiale.
È questo clima di paura e di conformismo, che nessuno osa mettere in discussione, ad aver generato il crescente malcontento tra il clero e i fedeli. Pensiamo a quei preti che da anni frequentano i collegi romani senza mai concludere un percorso di studi, pur mantenuti dalle loro diocesi. Hanno sempre un giudizio per tutti, etichettano i confratelli in base alle apparenze, alla compagnia o a un like. Sono pronti a puntare il dito, ma guai a ricordare loro che in dieci anni non hanno terminato nemmeno un ciclo di studi: chi osa dirlo è subito bollato come “cattivo”.
Un nuovo pulpito, ma con quali regole?
Scriveva Marshall McLuhan che “il medium è il messaggio”. E se è vero che i social media sono il nuovo “areopago”, è altrettanto vero che non sono neutri. Piattaforme come Instagram, TikTok o YouTube, infatti, non sono semplici vetrine. Sono spazi progettati per catturare attenzione e generare dipendenza, come dimostrano gli studi di Jean M. Twenge e Jonathan Haidt. L’algoritmo non premia necessariamente la verità, ma ciò che polarizza, che emoziona, che trattiene lo sguardo. E così anche il missionario rischia, pur senza volerlo, di adattare il messaggio cristiano a ciò che funziona meglio online.
È per questo che Silere non possum non rientra tra quelle pagine che “fanno numeri”. Per attirare numeri bisogna ricorrere a titoli acchiappalike, trasformare in scandalo ciò che non lo è, ridurre la Chiesa a un continuo susseguirsi di retroscena ed esclusive. Non è il nostro stile. Non vogliamo inseguire l’algoritmo, ma dare voce alle vere esigenze, anche quando non sono quelle che garantiscono più visualizzazioni. Se tra il clero nasce un tema che merita confronto, lo affrontiamo, anche se non interesserà la maggior parte dei laici. Ciò che conta è restare liberi, senza lasciarsi trascinare nella spirale del click facile.
Molti esperti di salute mentale — come lo psichiatra tedesco Manfred Spitzer o la psicologa statunitense Sherry Turkle — hanno evidenziato il pericolo di una “identità performativa” che si costruisce per piacere all’esterno, perdendo contatto con la propria interiorità. Un rischio da evitare. Il missionario digitale, se non vigila, rischia di passare più tempo a curare la propria immagine che a coltivare la vita spirituale. Stesso rischio che corriamo in parrocchia e nella vita quotidiana di fronte alla nostra comunità.
La tentazione dell’influencer spirituale
Un missionario può diventare influencer, ma non ogni influencer è un missionario. La differenza non è di estetica o contenuti, ma di intenzione e di forma interiore. Come ricordava don Luigi Giussani, “il cristianesimo non è una morale, ma un incontro”. Eppure, nell’universo digitale l’incontro è spesso filtrato, distorto, ridotto a reazione.
Chi evangelizza sui social è chiamato a un’opera difficile: abitare le piattaforme senza esserne assimilato. Come i monaci benedettini nel medioevo custodivano la parola nei manoscritti mentre il mondo crollava intorno, oggi i “monaci digitali” devono custodire la verità dentro una comunicazione che non si piega alle metriche del successo.
Formazione e discernimento: due parole chiave
Per questo servono due parole: formazione e discernimento. Formazione, perché non si può improvvisare evangelizzazione online senza una solida base teologica, culturale e psicologica. Discernimento, perché non tutto ciò che funziona è buono, e non tutto ciò che è buono funzionerà. Come suggerisce il teologo canadese Bernard Lonergan, il discernimento autentico nasce dall’attenzione a ciò che muove il cuore, non solo a ciò che genera consenso.
Una missione da vivere, non da mostrare
Il missionario digitale è chiamato a interrogarsi ogni giorno: sto comunicando Cristo o sto semplicemente comunicando me stesso? Uso i mezzi digitali per servire la Verità o sto piegando la verità per servire i mezzi? Cerco ciò che è vero o ciò che compiace? Sono più preoccupato di come vengo percepito, o di ciò che realmente sono davanti a Dio?
In questo discernimento, non possiamo dimenticare l’approfondimento che Silere non possum ha dedicato nei giorni scorsi ai discorsi d’odio e alle campagne di violenza verbale che si consumano sui social. Anche in questo ambito, come abbiamo scritto, serve una formazione psicologica solida, per non farsi risucchiare da un meccanismo perverso che alimenta rabbia, giudizio e manipolazione. Ricordiamoci un principio essenziale: quando qualcuno usa un argomento o una parola contro di te per ferirti, spesso sta rivelando ciò che per lui ha un peso. Magari è qualcosa che ha vissuto in prima persona, qualcosa che lo tocca nel profondo e che ora proietta su di te. Ma ciò che ferisce lui non necessariamente appartiene anche a te. Per questo, ciò che per l’altro è un insulto o un’accusa, a te può lasciare pace.
Esporsi sui social significa anche accettare questo: le categorie degli altri non sono sempre le nostre. E se siamo radicati nella verità di ciò che siamo, ciò che ci viene gettato addosso non attecchisce. Perché la pace nasce dal sapere a Chi apparteniamo, non da ciò che gli altri pensano di noi.
Quindi, è possibile, sì, essere testimoni credibili anche in rete. Ma solo a condizione di non vivere per la rete. Chi parla di Dio, se non parla prima con Dio, rischia di parlare a vuoto. È questa la differenza tra un predicatore e un propagandista.
p.E.B.
Silere non possum