L’attivismo pastorale è diventato uno dei modi più rispettabili per scappare da Dio senza uscire mai dalla Chiesa. Ci si riempie l’agenda di incontri, commissioni, progetti, tavoli sinodali; si moltiplicano sigle, iniziative, documenti. Sembra tutto generoso, persino eroico. Eppure, sotto la superficie, può mancare ciò che dovrebbe essere ovvio: un rapporto vivo con una Presenza, un “Tu” che definisce la nostra identità prima ancora del nostro fare.
Quando si parla di crisi della vita cristiana, si tirano subito in ballo i numeri: calo delle vocazioni, meno praticanti, bilanci in sofferenza. Raramente si osa dire che la crisi, prima di essere quantitativa, è qualitativa: riguarda il modo con cui stiamo davanti alla realtà, a noi stessi, agli altri. Don Luigi Giussani riassumeva così il punto: «Il problema del nostro movimento […] è il problema della capacità di presenza, e basta. La sua forza aggregativa, la sua forza di incidenza sull’ambiente è data dalla realtà di queste presenze». Non dice: la forza delle iniziative, dei piani pastorali, dei progetti. Dice: presenze.
È qui che l’attivismo pastorale diventa pericoloso: quando sostituisce la presenza con il programma. Si può “fare le cose” - riunioni, catechesi, eventi - e nello stesso tempo tenere la vita fuori da tutto questo. Giussani registrava con lucidità questa frattura: «Mi accorgo che si possono anche fare le cose, ma la vita può continuare a restare fuori da questa compagnia». È la fotografia di tanti ambienti ecclesiali: si lavora molto “per la comunità”, ma la propria esistenza reale - affetti, fatiche, paure, desideri - resta altrove, rischia di non entrare mai davvero nel rapporto con Cristo e con i fratelli.
Quando accade questo, i cristiani - in parrocchia, nelle associazioni e nei movimenti, negli ordini religiosi - rischiano di scivolare in una logica di gruppo, trasformando questi contesti in luoghi dove contano soprattutto stima, ruoli e protezione, mentre si spegne la disponibilità a lasciarsi interpellare dal reale, cioè a subire quella ferita che converte e rimette in moto la coscienza, invece di offrirle un riparo. Don Giussani parla di un’appartenenza vissuta solo con una parte di sé, ridotta a ruolo: «La compagnia e l’amicizia, invece che diventare sorgente di amore e di dolore […], diventano un alibi, un alibi per non vivere la serietà reale del vivere». L’attivismo è spesso questo alibi: mostrare che “si fa” molto per non guardare ciò che non funziona più nella propria fede.
Il meccanismo è sottile. In nome di Cristo si comincia a “voler mettere Cristo dentro le cose”, quasi come un’aggiunta che dobbiamo forzare sulla vita: «A volte si ha l’impressione che Cristo sia il termine di uno sforzo, qualcosa da ottenere», legge Giussani in un intervento, e commenta che questo «volontarismo è del tutto estraneo al riconoscimento di una presenza “presente”». L’attivismo nasce precisamente da qui: Cristo non è più l’origine di un movimento del cuore, ma il risultato ideale di una serie di prestazioni. Non è più l’incontro che genera un cammino, è il premio per chi regge il ritmo del cammino.
È così che la fede cessa di essere “pertinente alla vita” e si trasforma in linguaggio interno, in discorso per addetti ai lavori. Giussani ricorda che il carisma che ha ricevuto nasce dal bisogno che «la fede sia percepita come pertinente alla vita», perché solo così diventa sorgente di libertà, creatività, cultura. L’attivismo pastorale, invece, riempie il tempo ecclesiale di parole e iniziative che spesso non toccano più le domande elementari dell’uomo - il bisogno di significato, di perdono, di giustizia, di tenerezza - e dunque non toccano più realmente nessuno.
Il risultato è paradossale: ci si logora per gli altri senza essere più un “incontro” per loro. Giussani arriva a dire che il problema dell’educazione non si risolve chiamando sociologi o psicologi, perché «i giovani hanno assolutamente bisogno di una sola cosa, una, ed è quella stabilita dalla natura: la presenza dell’adulto». Non hanno bisogno innanzitutto di un sistema di attività pensate per loro, ma di adulti che siano presenza, cioè che rimandino a un Altro. Il giovane si accorge immediatamente se chi ha davanti è un funzionario del sacro o uno per cui Cristo è diventato così reale da cambiare il modo di guardare tutto.
Qui si apre un discrimine decisivo. Ci sono gesti esternamente identici - andare in missione, fare carità, organizzare percorsi formativi - che spiritualmente possono essere agli antipodi. Nel libro “Si può vivere così?” Giussani richiama la differenza tra generosità e carità: si può «dare il proprio corpo alle fiamme» e «non valere niente, se non ho la carità». La generosità parte da me, dalla mia immagine di me, dal bisogno di sentirmi buono e utile; l’amore nasce da una Presenza che mi precede e mi commuove, e a cui mi arrendo. L’attivismo pastorale è spesso generosità che non arriva mai a diventare carità, perché non accetta di dipendere da un Altro. L’altra tentazione è quella di fare della compagnia cristiana un rifugio. Se l’ambiente ecclesiale non rimanda più al Mistero, diventa un luogo dove ci si ripara dalla fatica di vivere, un “mondo a parte” che, mentre parla di missione, di fatto si chiude. Giussani descrive bene questa deriva: «La compagnia […] diventa rifugio e il “discorso” come ciò che fa tornare i conti». Si discute di metodi, di strategie, di linee pastorali, ma la vita reale - il dramma del cuore, le ferite della storia - viene esorcizzata, non attraversata.
In questo senso, l’attivismo pastorale è una fuga dal rapporto. Dal rapporto con Cristo, innanzitutto: perché è più semplice gestire molte cose “per Lui” che lasciarsi interrogare da Lui in ciò che non riusciamo a cambiare, nelle incoerenze che rimangono. Ma è anche fuga dal rapporto con gli altri: è più sopportabile organizzare un corso per famiglie che esporsi davvero alla storia concreta di una famiglia; più gestibile scrivere un “progetto giovani” che lasciarsi mettere in crisi dalle domande di un ragazzo che non crede più a nulla.
L’alternativa a questa fuga non è l’inattività, ma un’altra origine del fare. Là dove l’ospitalità non è programma ma vita, ogni gesto testimonia una paternità e una maternità che non vengono da noi. Giussani descrive così la vera amicizia: «La fecondità è mettere sulla strada per quella completezza che è la felicità, e l’amicizia è la compagnia guidata alla felicità». In questo orizzonte, l’opera pastorale non è mai una struttura da difendere, ma il frutto di rapporti in cui qualcuno si sente messo sulla strada della propria felicità, del proprio destino. Il criterio, allora, non è quante cose facciamo, ma che cosa la nostra presenza rende possibile. L’incontro vero avviene quando una persona, anche fragile, anche incoerente, porta dentro di sé “qualcosa d’altro”: «Essere presenza vuole dire che in noi, in noi stessi, portiamo qualcosa d’altro. Non si può essere presenza, se non si è segno: segno, cioè rimando ad altro». È questo che rende feconda qualsiasi pastorale, anche la più povera di mezzi; ed è l’assenza di questo che svuota anche i progetti più sofisticati. Forse la prima riforma pastorale di cui abbiamo bisogno non è un nuovo piano, ma un esame di coscienza radicale: in che cosa il nostro fare è diventato “alibi” invece che risposta? Dove le nostre attività sono un modo di non lasciarci toccare dalla realtà? Dove la nostra comunità è rifugio invece che luogo di appartenenza a un Altro? Lì l’attivismo va smascherato per quello che è: una fuga ben organizzata.
Solo quando il rapporto torna al centro - il rapporto con Cristo, con il fratello, con il reale - le opere riacquistano il loro posto: non come garanzia del nostro valore, ma come segno che un Altro sta operando nella nostra vita. Allora si può fare molto o poco, avere mezzi o non averne, ma una cosa diventa evidente: che la pastorale non è il tentativo stanco di “tenere in piedi qualcosa”, è il traboccare di una presenza che, semplicemente, non può non comunicarsi.
d.S.B.
Silere non possum