Roma - C’è un vecchio trucco retorico che da secoli avvelena il dibattito pubblico: l’attacco ad hominem. Invece di discutere un’idea, un argomento, una tesi, si colpisce chi la sostiene. È un meccanismo tanto semplice quanto efficace: se non riesco a confutare ciò che dici, proverò a screditare te come persona. E così, il discorso si sposta dal merito alla polemica personale, dall’analisi al pettegolezzo, dalla verità alla distorsione.
Il meccanismo psicologico dell’attacco personale
Dal punto di vista psicologico, l’attacco ad hominem sfrutta le nostre vulnerabilità emotive. Chi è colpito si trova improvvisamente messo sotto accusa non per ciò che ha detto, ma per ciò che è. È un tipo di violenza simbolica che tende a isolare, a indebolire l’autostima, a generare paura. Le neuroscienze hanno mostrato come la percezione di un attacco personale attivi le stesse aree cerebrali coinvolte nel dolore fisico: il cervello non distingue tra ferita del corpo e ferita dell’identità.
Chi usa l’ad hominem sa bene che questa strategia mira a spostare l’attenzione collettiva. Non importa dimostrare che le parole dell’altro siano false: basta instillare il dubbio sulla sua credibilità, insinuare sospetti sulla sua vita privata, minare la sua reputazione. È la logica della diffamazione: distruggere il messaggero quando non si può smentire il messaggio.
L’esempio di Francesca Albanese
Negli ultimi mesi, in particolare l’area politica della destra ha fatto ricorso con costanza a questo metodo contro Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU per i diritti umani nei Territori palestinesi. È divenuta il bersaglio di una campagna di delegittimazione orchestrata, fatta di articoli velenosi, insulti sui social, insinuazioni sulla sua vita privata e sospetti sulla sua professionalità. Un fiume di accuse che, peraltro, si rivela del tutto infondato.
Le sue analisi su Gaza sono documentate, basate su fonti verificate, coerenti con il diritto internazionale. Non a caso trovano riscontro in rapporti di organizzazioni indipendenti e testimonianze dirette. Ma proprio perché le sue parole descrivono una realtà scomoda – quella di un popolo sottoposto a violenze che molti giuristi qualificano come genocidio – chi non ha argomenti per contestarla sul piano dei fatti ricorre alla scorciatoia: attaccare lei.
Così, invece di discutere dei contenuti, si insinua: “è di parte”, “ha interessi nascosti”, “è squilibrata”, “non è una vera professionista”, “non è una avvocata”, “è pagata”, “ha degli scheletri negli armadi”, ecc... Non basta: le sono stati perfino negati diritti elementari, come l’apertura di un conto corrente, perché sottoposta a sanzioni dagli Stati Uniti. Non perché abbia commesso crimini, ma perché fa il suo lavoro: raccontare ciò che accade per mano del governo di Israele.
La sproporzione è evidente: una funzionaria delle Nazioni Unite viene privata di strumenti essenziali della vita quotidiana e sottoposta a un linciaggio mediatico non per aver commesso reati, ma per aver osato pronunciare la parola tabù: genocidio. Una parola che il governo guidato da Giorgia Meloni non tollera neppure venga evocata. Basti pensare che, nei giorni scorsi, la direzione dell’Ufficio Scolastico Regionale del Lazio ha inviato una circolare riservata in cui si invitano le scuole a limitare gli spazi di discussione e di assemblea sul genocidio in corso a Gaza.
Dinamiche sociali e politiche
L’attacco ad hominem contro Albanese non è un caso isolato, ma rientra in una dinamica sociale più ampia. Quando il potere – politico, economico o mediatico – si trova in difficoltà davanti a un discorso scomodo, reagisce non entrando nel merito, ma colpendo chi osa denunciare. In termini sociologici, si tratta di una strategia di neutralizzazione: spostare l’attenzione dal contenuto alla persona, delegittimarla, trasformarla in un bersaglio. È un processo che produce conseguenze non solo sull’individuo colpito, ma sull’intero spazio pubblico. Il messaggio che passa è chiaro: chi dice certe verità sarà messo alla gogna. È un meccanismo di deterrenza, un modo per scoraggiare altri dal parlare.
Politicamente, questa logica segna un arretramento della democrazia. Quando i diritti fondamentali vengono sospesi non per reati ma per opinioni, il terreno si sposta verso la repressione del dissenso. E quando un’istituzione come l’ONU viene colpita indirettamente – perché colpire un suo rappresentante significa colpire l’autorità dell’istituzione stessa – la frattura diventa globale.
La questione rimossa: i diritti fondamentali
Il punto forse più grave è che mentre ci si concentra sugli insulti e sugli attacchi personali, si tace sull’aspetto essenziale: a una relatrice ONU vengono negati diritti fondamentali. Non c’è un processo, non c’è una condanna, non c’è un’accusa formale. Solo il peso geopolitico di uno Stato che decide di colpire chi racconta una verità scomoda perché è complice di Israele. E qui la domanda diventa inevitabile: come mai nessuno si scandalizza? Come mai il dibattito pubblico preferisce parlare della vita privata di Francesca Albanese piuttosto che interrogarsi sul fatto che un’autorità internazionale viene silenziata con mezzi che nulla hanno a che vedere con lo Stato di diritto?
Riconoscere il meccanismo per difendere il dibattito
Gli attacchi ad hominem funzionano perché parlano alla pancia, non alla testa. Perché è più facile insultare che confutare. Ma se cediamo a questa logica, rischiamo di perdere il senso stesso della discussione pubblica. Il caso di Francesca Albanese mostra come la macchina del fango possa trasformarsi in un vero e proprio strumento politico: impedire che si parli del genocidio in corso distogliendo lo sguardo dalla verità e puntandolo sulla persona che la denuncia. Riconoscere questi meccanismi è il primo passo per disinnescarli. Non si tratta di difendere un individuo, ma di difendere il diritto di tutti a un dibattito basato sui fatti e non sul discredito personale.
S.C.
Silere non possum