“Un errore”. Così lo ha definito il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. L’attacco che giovedì ha colpito la parrocchia latina della Sacra Famiglia a Gaza – l’unico presidio cattolico rimasto nella Striscia – sarebbe stato un errore. Ma cosa significa, oggi, errore? Lo si dice davanti a un portone sbagliato, non su un bersaglio colpito da missili.Non quando l’“errore” seppellisce persone vive sotto le macerie, sbriciola pareti che custodiscono la preghiera, cancella con un colpo di fuoco la casa di Dio.
Sono mesi che la Chiesa Cattolica, il Patriarca Pierbattista Pizzaballa, il parroco di Gaza, i frati francescani, sono vicini ai fedeli cercando di portare conforto dove tutto parla di disperazione. Ieri, in quel luogo, la morte ha bussato di nuovo. Non è stata la prima volta. E, temiamo, non sarà l’ultima.
La parola “errore” si accompagna spesso a un tono di leggerezza inquietante, come se bastasse pronunciarla per lavarsi le mani del sangue versato. È una grammatica pericolosa. Perché se l’omicidio di civili, di famiglie, di bambini viene archiviato con un’alzata di spalle, allora abbiamo smarrito il senso stesso della giustizia, della responsabilità, e soprattutto della vita. Colpire una chiesa è un errore, colpire orfanotrofi e civili no? La medesima superficialità semantica che si adotta quando un feto viene ucciso nel grembo della madre e si parla di “errore”, di “precauzioni mancate”. Come se la morte fosse solo una complicazione, un dato statistico, un incidente di percorso.
Ci interroghiamo ancora sul significato della sacralità della vita? “Ogni uomo è mio fratello”, scriveva Martin Buber. Ma se l’altro è solo un bersaglio, una variabile collaterale, allora non è più fratello: è carne sacrificabile. “La pace è possibile solo se si riconosce nell’altro un volto”, ammoniva Emmanuel Lévinas. Ma la guerra rende il volto anonimo, lo disintegra, lo rende cifra di un calcolo militare.
Il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato, ieri sera ha parlato chiaro: “Adesso si attendono i fatti, non solo parole. E si vuole chiarezza su questa indagine promessa”. Non sono parole di circostanza, né di comodo. Sono il segno che anche la diplomazia vaticana – spesso trattenuta – non può più tacere. Anche il Patriarca Pizzaballa ha parlato di “dubbi sull’errore”. Dubbi. Non accuse, ma neppure coperture.
Sì, perché l’impressione è un’altra: che non si sia trattato di un errore, ma di un messaggio. “Siete gli unici che continuano a denunciare il genocidio in corso? Allora vi mettiamo a tacere così”. L’unico avamposto cristiano a Gaza viene colpito mentre accoglie civili. È un dettaglio? Una coincidenza? Non è più tempo di silenzi. Non è più tempo di ambiguità. La vita è sacra sempre – anche quando è palestinese. Anche quando prega in arabo. Anche quando piange nascosta dietro un altare. E chi oggi continua a negare l’evidenza di un genocidio in atto, di cui Benjamin Netanyahu porta la responsabilità politica e morale, non è spettatore: è complice.
Scriveva san Giovanni Paolo II: “La guerra è sempre una sconfitta dell’umanità”. Ma quando alla guerra si aggiunge l’ipocrisia, allora la sconfitta è ancora più profonda. Perché non riguarda solo il corpo: riguarda l’anima.
p.F.C.
Silere non possum