Caspoggio - C’è un momento dell’anno in cui siamo chiamati a fare delle scelte. A volte contro voglia, a volte con entusiasmo. È il momento della partenza per i campi estivi. In estate le giornate si allungano, le scuole finiscono, e spesso qualche genitore non sa dove “piazzare i figli”. Ma c’è qualcosa che è molto più di un parcheggio o di una vacanza: il campo estivo. Nel campo estivo i ragazzi dimenticano il cellulare, sono meno soggetti al vibrare continuo delle notifiche. Non è una vacanza come le altre. Non ci sono comodità garantite, non c’è Wi-Fi, e questo – paradossalmente – aiuta profondamente a strutturare la persona umana. Ma c’è qualcosa che altrove manca: la possibilità di vivere davvero, di riscoprire il valore delle relazioni con gli altri e anche con Dio.

Fraternità che guarisce

Ogni volta che abbiamo iniziato un campo estivo, ho visto accadere una piccola rivoluzione. Ragazzi timidi che trovano finalmente la voce. Volti spenti che si accendono. Cuori chiusi che si aprono lentamente, come finestre dopo un lungo inverno.

Perché succede? Forse perché quando dormi in sacco a pelo accanto a qualcuno, condividi il pane, lavi i piatti insieme, smetti di indossare maschere. Non serve più fingere. E ti rendi conto che l’amicizia vera è possibile, che si può stare insieme senza giudicarsi, senza dover sempre apparire. Il campo estivo è una scuola silenziosa di fraternità. Una fraternità che guarisce. I ragazzi, in quei giorni, fanno un’esperienza rara: quella di stare insieme sul serio, lontani dalle vetrine social, dai voti e l’ansia della prestazione, dalle etichette. Vivono qualcosa che la scuola, lo sport, i social o le mille attività dell’anno spesso non offrono.

Molto spesso, dopo pranzo o dopo cena, basta uscire dal refettorio per vedere questa rivoluzione in atto. Ti affacci sulla spianata e osservi: piccoli gruppi di ragazzi che ridono, scherzano, condividono. Qualcuno gioca, qualcuno si rincorre, qualcuno si siede a guardare il tramonto. Poi, poco più in là, due ragazzi parlano a bassa voce: una piange, l’altro lo ascolta, si abbracciano, si consolano. E sotto un albero, un ragazzo è solo, con un bastoncino in mano, assorto nei propri pensieri. Forse sta ripensando a quanto è stato detto nell’incontro del mattino, dopo le Lodi. È umanità vera, fatta di sguardi, di gesti, di presenze non virtuali. È una fraternità che non si insegna con le parole, ma che si impara vivendola.

Il gusto delle cose semplici

Là dove il mondo ci abitua al “tutto e subito”, il campo ti costringe a rallentare. Ti insegna a fare la fila, ad aspettare il tuo turno per la doccia, a stare in silenzio sotto le stelle. Ti insegna che puoi essere felice anche con poco, che un tramonto vale più di uno schermo, che un abbraccio sincero resta nel cuore più di cento like e follower. E poi impari che il servizio non è una punizione ma una forma di amore: lavare i piatti per tutti, raccogliere la spazzatura, alzarsi presto per preparare la colazione. Piccoli gesti che – giorno dopo giorno – costruiscono una comunità.

L’arte di vivere

Tutto questo chiama in causa anche noi, gli adulti. Perché il campo non è solo un’esperienza educativa per i ragazzi: è anche un’occasione per rimetterci in gioco, per imparare di nuovo. Quest’anno, ad esempio, il tema scelto per il campo è la capacità di attendere. Un tema che ci riguarda profondamente. Quante volte, nelle nostre relazioni quotidiane, non sappiamo aspettare. Non abbiamo pazienza. Non rispettiamo i tempi dell’altro. E, ancora più spesso, non rispettiamo nemmeno i nostri di tempi: ci forziamo, ci rincorriamo, ci giudichiamo, nella continua ansia di “performare”, di essere all’altezza, di dare di più. Nel nostro ambiente ecclesiale, poi, questa tensione è spesso aggravata da una logica sottile ma corrosiva: il giudizio dell’altro pesa più di quello di Dio. Così ci adattiamo, compiaciamo, perdiamo autenticità. Ma il Signore ci chiama a ben altro: al rispetto di noi stessi, al rispetto dell’altro, all’attesa fiduciosa dei tempi di Dio. Ecco perché il campo è anche un tempo di riflessione per noi adulti. Una pausa che ci costringe a guardarci dentro, a fare verità sulla nostra storia, sulle nostre fragilità, sui nostri errori. Gli spunti che offriamo ai ragazzi — la condivisione, il perdono, il mettersi in discussione — sono prima di tutto una sfida per noi. Non possiamo proporli se non li viviamo.

In questi anni, abbiamo visto genitori stupirsi del cambiamento nei loro figli dopo un campo estivo. Ragazzi che erano abituati a vivere nell’agiatezza, a essere sempre al centro, a fare un po’ di capricci per ottenere ciò che volevano... improvvisamente tornano diversi. Più essenziali. Più rispettosi. Più attenti. Perché il campo rovescia la prospettiva: il metro di misura non è più “io”, ma “io in relazione con gli altri”. Ed è lì che si cresce davvero.

Dio non fa rumore

Il campo è anche uno spazio spirituale. Non perché si preghi tutto il giorno, ma perché Dio si fa trovare nei dettagli. In un canto che ti commuove, in una parola che ti risuona dentro, in un momento di silenzio attorno al fuoco. In quella confidenza inaspettata, in quell’abbraccio che arriva al momento giusto, in una Messa celebrata su una roccia o nel bosco, che ti fa sentire amato come mai prima. Nel campo non “si parla di Dio” come a scuola. Lo si incontra. E questo, per tanti ragazzi, è l’inizio di una fede che smette di essere teoria e comincia a diventare vita.