La povertà, per Francesco d’Assisi, non è un ideale astratto né una teoria morale: è il luogo in cui l’uomo cambia sguardo, si converte e incontra Cristo. Le Fonti francescane mostrano questo passaggio attraverso episodi concreti, essenziali, in cui la povertà non viene pensata ma vissuta. Fra i molti racconti, ce n’è uno che più di tutti rivela la svolta decisiva del giovane Francesco: l’incontro con il lebbroso, il varco attraverso cui l’amaro diventa dolcezza.
Il racconto che cambia tutto
La Vita Seconda di Tommaso da Celano descrive l’episodio in modo diretto e indimenticabile. «Fra tutti gli orrori della miseria umana, Francesco sentiva ripugnanza istintiva per i lebbrosi», scrive l’autore. Ma un giorno, «mentre era a cavallo nei pressi di Assisi», ne incontrò proprio uno. Avvertì ribrezzo, quasi un rifiuto immediato, e tuttavia non volle venir meno alla fedeltà interiore che stava maturando: «balzò da cavallo e corse a baciarlo». Il malato gli tese la mano e «ne ebbe contemporaneamente denaro e un bacio». Quel gesto, che non obbedisce alla logica del buon senso, segna l’inizio di un’esistenza nuova. Francesco, annota ancora Celano, qualche tempo dopo andò egli stesso al lebbrosario e «dopo aver dato a ciascun malato del denaro, ne baciò la mano e la bocca». La povertà, da minaccia, diventa luogo teologico, spazio di tenerezza, rivelazione di un Dio che si nasconde laddove l’uomo non vorrebbe mai guardare.
Cristo presente nel povero
Per capire ciò che accade in Francesco, bisogna cogliere la struttura evangelica della sua scelta. Il povero non è soltanto un bisognoso: è un luogo di presenza. Le parole del Vangelo - «L’avete fatto a me», «Non l’avete fatto a me» - non sono metafore morali. Sono un’identificazione reale: Cristo si fa riconoscere nel povero.
Da qui nasce la lotta più dura: non contro la povertà in sé, ma contro l’indifferenza. La miseria del mondo, vista attraverso i “doppi vetri” dell’abitudine, arriva ovattata, come un rumore lontano. La conversione consiste nel rompere quei vetri e lasciarsi ferire dalla realtà che si era tenuta a distanza. È ciò che accade al giovane Francesco davanti al lebbroso: la povertà non è più un fastidio da evitare, ma una chiamata che lo raggiunge nel profondo.
Povertà che libera e povertà che imprigiona
Esiste innanzitutto una povertà che schiaccia, una povertà subita, non voluta, che nasce dall’ingiustizia o dall’abbandono. È la povertà che disumanizza, che toglie dignità, che umilia. È la condizione dei «poveri che giacciono alla porta», come l’epulone della parabola il quale ignorava che il mondo continua troppo spesso a non vedere. Questa forma di povertà, che toglie il necessario per vivere, è ciò che la tradizione cristiana chiede di combattere, non di esaltare.
Il primo peccato nei confronti dei poveri è l’indifferenza: quella distanza protetta, quei “doppi vetri” che ci permettono di vedere la miseria senza lasciarci toccare nel cuore. La povertà materiale subita non è volontà di Dio: nasce dalla bramosia, dalla disuguaglianza, dalla corsa a trattenere tutto per sé. È la parte malata del nostro mondo. Ed è proprio la sua esistenza a rendere ancora più urgente l’appello alla conversione.
Accanto a questa povertà negativa, esiste una povertà spirituale che può abitare anche i ricchi. È la povertà dei valori, del senso, della verità; è il vuoto che si crea quando il cuore si aggrappa alle cose e non trova più un centro. È quella condizione in cui si possiede tanto ma non si è felici, in cui il desiderio continua a riempirsi di oggetti senza trovare pace. È una povertà paradossale, perché non dipende dall’assenza di beni, ma dalla loro idolatria. È la povertà dell’«anima anestetizzata dal benessere», quella che porta a dimenticare ciò che conta e a non vedere più chi soffre. È la povertà dell’uomo che ha tutto eppure non si accorge di ciò che davvero rende umano.
Di fronte a queste forme di mancanza, la tradizione cristiana propone la via della povertà scelta, che non è miseria ma libertà. È la povertà che nasce da una scelta consapevole di sobrietà, di leggerezza interiore, di distacco dalle cose. Non è una rinuncia triste: è un modo di respirare. È quel passo indietro che restituisce spazio a ciò che vale, che rende l’uomo capace di riconoscere i fratelli e di accorgersi di Dio. Questa povertà è «positiva» perché libera dal peso del possesso e dalla paura di perdere. È la forma evangelica della vita: non il disprezzo delle cose, ma il non lasciarsi possedere da esse.
A questa si unisce la povertà interiore, fatta di umiltà e fiducia, che è la forma più alta di ricchezza spirituale. È la povertà dei «poveri in spirito», di chi non mette sé stesso al centro, di chi non pretende, non calcola, non si impone. È la povertà di chi sa di dipendere da Dio, e proprio per questo è libero. È la povertà del cuore di Francesco: quella di chi non tiene nulla per sé, perché ha scelto di appartenere totalmente. Francesco attraversa tutte queste dimensioni, ma non in modo teorico: le vive, le attraversa, le trasforma. E soprattutto le unifica in una sola direzione: la povertà come leggerezza evangelica, come libertà radicale, come possibilità di essere disponibili a tutto e a tutti. In lui la povertà diventa un modo di respirare il mondo, non un’ideologia. Non la usa per giudicare, né per accusare, né per opporsi. Non la brandisce contro la Chiesa, non la contrappone ai ricchi, non la trasforma in arma polemica. La sua povertà è mite, costruttiva, mai aggressiva. Non esige dagli altri ciò che chiede a sé stesso. Non osserva l’abito o il patrimonio altrui: osserva il proprio cuore. La novità sta proprio qui: la povertà non lo rende contrario a qualcuno, ma simile a Cristo. È una via personale, non un manifesto. È un cammino che non parte dal mondo, ma dal suo desiderio di rispondere all’amore ricevuto. Per questo Francesco non giudica la ricchezza degli altri: giudica solo sé stesso. Ed è proprio questo sguardo misericordioso e sobrio che rende la sua povertà così feconda, così libera, così capace di convincere senza costringere.
Un Cristo nascosto nel lebbroso
Alla luce di tutto questo, il bacio al lebbroso appare per ciò che realmente è: una epifania di Cristo. Lì dove l’istinto suggeriva repulsione, Francesco scopre la presenza; lì dove c’era distanza, nasce una comunione; lì dove la carne gridava rifiuto, fiorisce la carità. Il povero non è un problema sociale prima ancora che un mistero teologico: è un corpo ferito, una mano tesa, un volto che interpella. È il punto in cui la vita di Francesco si spezza e si ricompone. Da quel momento il resto della sua storia—la fraternità, la Porziuncola, la Regola—non sarà che lo sviluppo di questa intuizione: la povertà non è un concetto, ma un incontro; non una rinuncia, ma una somiglianza con Cristo povero. In Francesco, tutto nasce da un gesto semplice e radicale: un bacio dato a chi non poteva restituire nulla. È in quella gratuità che si manifesta la sua conversione. È da quel bacio che nasce il suo Vangelo.
p.F.E.
Silere non possum