Diocesi di Novara

Grignasco - Questo pomeriggio, alle ore 15, la comunità di Grignasco si è riunita per celebrare le esequie del presbitero Matteo Balzano, sacerdote della diocesi di Novara, tragicamente venuto meno il 5 luglio 2025, quando ha scelto di porre fine alla propria vita. La liturgia funebre, celebrata prima della tumulazione, ha avuto luogo presso la chiesa del Cimitero di Grignasco. Essa ha fatto seguito al funerale presieduto al mattino, a Cannobio, dal vescovo Franco Giulio Brambilla. A guidare il rito è stato don Franco Giudice, vicario per il clero della diocesi, che nell’omelia ha cercato di restituire la complessità umana e spirituale dell'evento.

«Don Matteo
— ha detto don Franco — era un prete amato, stimato, entusiasta, nonostante le difficoltà degli ultimi anni. Proprio nell’assunzione di una nuova responsabilità pastorale, aveva mostrato un volto rinnovato, forte di una passione sincera per il ministero. Per questo la sua morte rappresenta una ferita aperta, una domanda sospesa, una sconfitta collettiva: «non siamo stati in grado di riconoscere il suo grido silenzioso».

Nel cuore dell’omelia, quattro domande rivolte ai confratelli, ma che interpellano anche ogni credente.

1. La solitudine del prete.
Non quella ascetica e scelta, ma quella imposta, silenziosa, opaca. Don Franco ha parlato con schiettezza: «Non siamo eremiti nel deserto, ma pastori in una comunità». Eppure, la domanda resta: chi ascolta davvero un prete quando ha bisogno di parlare? L’amicizia tra confratelli, un messaggio, una visita, una pizza condivisa: piccoli gesti che spesso mancano, e la cui assenza pesa più del previsto.

2. La cura di sé.
Il Vicario cita san Carlo Borromeo: «Donarci agli altri, ma non fino al punto da non conservare nulla per noi stessi». Il prete non può vivere il suo ministero in stato di esaurimento. Servono spazi personali, tempo per la preghiera, per la bellezza, per la natura, per l’arte. Non è fuga, ma rigenerazione. Un prete stanco, ha ricordato don Franco, non potrà mai essere una sorgente di gioia.

3. Il legame con Cristo.
«Non siamo soli. Se camminiamo soli, ci perdiamo». Il rapporto tra il sacerdote e la sua comunità non è mai a due, ma a tre: lui, la gente, e Cristo. E senza un accompagnamento spirituale autentico — qualcuno davanti a cui poter piangere, sorridere, confessarsi, essere veri — anche il ministero più brillante si svuota.

4. La fraternità sacerdotale.
La morte di un sacerdote non è solo un dolore personale, ma una crepa nella comunione del presbiterio. Un prete isolato, ha detto con forza don Franco, impoverisce tutti. E un prete gioioso, pur tra mille difficoltà, arricchisce tutti. Per questo, ha aggiunto, siamo chiamati a essere “preti felici”, capaci di trasmettere “il profumo del Regno di Dio”.

Nell'omelia, don Giudice, ha chiesto silenziosamente una presa di coscienza: «Che questo evento così drammatico per tutti possa aiutarci a riflettere e a rigenerarci, nella speranza che il Crocifisso risorto ci ha donato». Si tratta di un compito che non riguarda solo noi, confratelli di don Matteo, ma tutta la comunità cristiana, la gerarchia ecclesiastica, la comunità educante dei seminari. Riguarda tutti coloro che, davanti a un sacerdote o un seminarista, dimenticano troppo spesso che dietro l’abito c’è un uomo. Al di là delle ideologie e delle proprie "tare mentali" ci sono storie, sofferenze e difficoltà che interrogano l'umano. Questa tragica morte interroga noi tutti e ci sprona a comprendere che il grido silenzioso di dolore, se ascoltato in tempo, può diventare un canto di resurrezione.

d.G.T.
Silere non possum